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UN LUNGO VIAGGIO NELLA NOTTE

UN LUNGO VIAGGIO NELLA NOTTE

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Tra struttura da videogioco e film d’autore.

Molte sale in Italia sono ancora chiuse, e il secondo lungometraggio di Bi Gan è uscito solamente in 6 cinema, rendendo complicato qualsiasi pronostico su un eventuale apprezzamento del pubblico e destinandolo al fallimento economico (in un mese come agosto, poi), forse sperando in uno sfruttamento di seconda visione. Del resto, è un oggetto che è difficile rendere commerciabile, non solo per la sua nazionalità e assenza di premi prestigiosi (pur essendo passato a Cannes), ma anche per il suo ritmo onirico e la difficile collocazione (film di genere d’autore? autore per chi, soprattutto?). Recensendo Il lago delle oche selvatiche (pur sempre un noir, ma in un certo senso “puro”) sottolineai che in Cina aveva avuto ottimi incassi, il caso di Un lungo viaggio nella notte [da adesso LVNN] rasenta invece il comico: uscito la notte di Capodanno lanciato da un trailer piuttosto ingannevole come un thriller romantico, dal secondo giorno in poi ha registrato un calo del 96% dei biglietti venduti rispetto al primo, tanto da generare sui social l’hashtag “non ho capito LVNN” diventato un trend con conseguenti recensioni negative. E non finisce qui, dato che al cinema in cui l’ho visto uno spettatore si è rifiutato di entrare in sala perché non veniva proiettato in 3D. Come sappiamo, la tridimensionalità è stata ampiamente sfruttata dalle major hollywoodiane, non tanto per un lavoro teorico sull’immagine quanto semplicemente per ostentare ancora di più la grandezza del budget e dei mezzi di produzione (l’unica eccezione che ricordo è il Godard di Adieu au langage, ma chi l’ha visto con gli occhialini in sala?). Negli ultimi anni, invece, la tendenza è di investire di più sulla qualità dell’immagine (4K, UHD), restauri compresi (Titanic, ad esempio), e il 3D sembra definitivamente archiviato nel passato prossimo. Questo, unito alla volgarizzazione del piano-sequenza – non fattuale ma solo estetico dati i trucchi di montaggio – attuata da Birdman prima e 1917 poi, fa sì che LVNN visto nel 2020 risulti un esercizio di retroavanguardia: sfrutta, insomma, il medium cinematografico con tecniche all’avanguardia, ma in ritardo rispetto al cinema cosiddetto mainstream. E l’esperimento retro-avanguardistico continua anche all’interno dell’opera, facendo comparire il titolo del film prima del piano-sequenza, stratagemma codificato da Apichatpong Weerasethakul nel 2004 con Tropical Malady. Anche se relegato a poche sale e al ghetto d’essai, LVNN è una produzione ad alto profilo, vantando almeno una trentina di produttori alle spalle (tra effettivi, esecutivi e associati), una troupe tecnica composta da un centinaio di persone e 4 case di produzione tra cui la francese CG Cinéma. Il notorio piano-sequenza è stato girato in 5K, battendo 7 ciak nel giro di 1 mese (con conseguenti ripensamenti) e cambiando anche direttori della fotografia nel corso della sequenza.

Meriterebbero un trattamento approfondito anche le scelte di casting, per il quale ci limitiamo a segnalare due presenze femminili. Da un lato l’interpretazione di Sylvia Chang, vera e propria memoria storica del miglior cinema hongkonghese, dall’altro il coraggio di aver scelto la bellissima Wei Tang (che avevamo ammirato in Blackhat), ostracizzata in Cina per le scene spinte in Lust, Caution. Ora, se il lato teorico del film è meno ardito rispetto a quello di altri grandi maestri e sottolinea che il modello è Stalker (struttura di genere piegata a riflessioni sul tempo e la memoria) citandolo in più di una inquadratura, l’aspetto metacinematografico, attraverso il suo cast, sembra dire qualcosa di più interessante: l’entrata in scena di Sylvia Chang che balla su una canzone trash seguendo i passi su un televisore analogico, potrebbe allegoricamente rappresentare lo stato attuale di un cinema, quello di Hong Kong, che oggi non riesce più ad esprimersi e contempla il proprio passato. Dall’altro, la giovane Wei Tang dall’identità enigmatica, che nelle due parti passa da femme fatale a provinciale che vive solo in funzione del presente, porta con sé la visione di un cinema inafferrabile e frammentato come quello della Cina continentale, seducente ma invisibile per chi ne vive fuori. Tesi che vengono avvalorate dal fatto che il cinema di Bi Gan è fortemente radicato ai luoghi del suo vissuto (la città-contea Kaili, in cui sono ambientati i suoi due film), e perché  come già ne Il lago delle oche selvatiche e ne I figli del fiume giallo, la festa di piazza qui è a un livello ancora più sconsolato e folcloristico: gli ultimi attimi prima della fine di una periferia pronta per essere dimenticata.

LVNN risulta semplice, almeno dal punto di vista strutturale: se la realtà (la prima parte del film) è frammentata, con tanto di salti temporali, il sogno (la seconda parte) è un flusso narrativo ininterrotto, come del resto è l’attività onirica, risultando così azzeccata la scelta del piano-sequenza, adoperando come mezzo per dare un’unità narrativa a questi 59 minuti, oltre ai rimandi alla parte precedente, la logica del videogioco. I due protagonisti procedono per livelli, che solo una volta risolti danno la possibilità alla storia di andare avanti e proseguire nell’esplorazione del territorio. Tutto comincia non a caso inquadrando una mappa, fornendo fugacemente le coordinate dell’azione. Nei sogni e nei videogiochi, le cose succedono anche senza un motivo preciso, così si spiega anche l’apparizione del ragazzino, che in un primo momento richiede una grande sospensione dell’incredulità. Il procedere per step rimane però il vettore dell’azione: se il protagonista non vincesse la partita a ping pong col ragazzino non arriverebbe alla funivia, così come senza il volo (pare sia una citazione da Chagall) non accederebbe alla festa. Il rapporto immagine cinematografica/videogioco non è mai stato così pregno, anche perché LVNN non è la plastica che producevano gli studios americani nei film “tratti da”. E porta alle estreme conseguenze le teorie di Chris Marker in Sans Soleil (1983), in cui il programmatore Hadao Yamaneko illustrava come questo campo sia l’unico che può inglobare memoria, sentimenti e immaginazione, che è quanto fa Bi Gan col suo protagonista.

Non ci è dato sapere quanto funzioni il 3D, anche se questo accresce l’immersività, soprattutto dal lungo travelling in funivia. Se c’è chi si lamentava che al cinema come nei videogiochi vi è ancora la persistenza di uno sguardo antropocentrico, convenzione che solo i piani sequenza più arditi possono sfidare, Bi Gan dimostra un gran coraggio alla fine di LVNN. Abbandonando il protagonista, chiude il sogno adottando il punto di vista del suo inconscio. In questo gesto, viene fuori un regista che sa andare oltre la semplice etichetta di “creatore di lunghi piani-sequenza”. Se continua a giocare coi generi, spinge seriamente i limiti del cinema e lascia stare citazioni, frasi ad effetto e simbolismi facili, avremo un nuovo grande autore da studiare.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.