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Facciamoci una risata.

E fatevela, ‘na risata ogni tanto”: è un mantra ricorrente, un po’ come il “Come mi vedi?” di Ricordati Di Me: perché il cinema di Gabriele Muccino, espanso in maniera incontrollata con la trasferta americana (che ha figliato qualcosa di buono e molto di pessimo), è quasi un universo condiviso tenuto insieme da una fitta rete di emozioni, rimandi, sentimenti. A Casa Tutti Bene sdrammatizza, allarga l’orizzonte dell’universo di Muccino, dà nuovo ritmo e nuovo respiro al suo cinema ultimamente asfittico, un cinema di cui è un po’ la summa: e che – per fortuna? – non mette a frutto nulla delle sue regie d’oltreoceano, mentre riprende e migliora quanto di buono c’era nella sua tecnica. Tecnica che, diciamocelo, è mostruosa: l’isteria nevrotica che attanaglia i suoi personaggi potrà piacere o meno, ma è innegabile che Gabriele abbia occhio, mano e polso sicuri.

Occhio: perché lui racconta quello che vede, lo interiorizza, lo metabolizza, lo rimastica e lo sputa fuori con violenza. Le famiglie disfunzionali non saranno poi tutte come quelle che racconta, ma chi può negare che i ritrovi familiari, quelli finti, quelli forzati, hanno come minimo comune denominatore il rancore inespresso e la frustrazione, ovvero quello che tiene insieme la famiglia Ristuccia? Che poi, Ristuccia è il nome dei protagonisti de L’Ultimo Bacio, del citato Ricordati Di Me e appunto di A Casa Tutti Bene, sempre a proposito di quell’universo condiviso di cui sopra: e quindi, se tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre, tutte le famiglie Ristuccia sono infelici a modo loro. Volenti o nolenti, le urla, l’inquietudine, l’isterismo, appartengono all’inquietudine di tutti noi, quella rinchiusa e tenuta a bada nel profondo, così come il vorticare della macchina da presa, consequenzialmente, è con Muccino forma e sostanza. Lui che prende venti familiari e li rinchiude in un’unità di spazio e – quasi – di tempo: un tour de force impressionante, narrare i legami familiari di tutta questa (brutta) gente senza annoiare lo spettatore, e intanto danzare insieme a loro nel balletto del gioco al massacro che parte praticamente da subito.

Mano: solo Muccino può raccontare anche visivamente una storia così corale, come forse solo la Pagana Trinità del passato (Scola-Risi-Monicelli) aveva saputo e voluto e potuto fare, solo lui ha la forza e la tecnica necessarie per passare con leggiadra agilità filmica da un personaggio all’altro, da una stanza all’altra, da un ambiente all’altro, compiendo inutili virtuosismi che però, messi proprio , sono contenuto e contenitore insieme, quindi perfetti e insostituibili.

Polso: e l’altra cosa incredibile è che nessuno, dei 14 attori superstar messi uno di fila all’altro, prende il sopravvento, nessuno si erge al di sopra, e tutti danno il meglio e forse di più, se è vero che finanche Giampaolo Morelli dà spessore al suo marito adultero e bugiardo. Certo, poi che Gerini, Ghini e Impacciatore siano fuori scala è sotto gli occhi di tutti: i primi due a vestire i panni di un amore enorme e feroce, lei a soffrire fra un estremo e l’altro, lui a sorridere con quegli occhi acquosi che ti annegano nel dolore di una tristezza inconsapevole, e la Impacciatore – qui anche cosceneggiatrice – a colmare le sfumature con incredibili raffinatezze d’attrice.

Eppure, nonostante tutta questa materia calda e ribollente, A Casa Tutti Bene è un film parlato, costruito sulle parole e che fa sì che siano le parole a ferire mortalmente: un fiume di parole che, come nella migliore tradizione della commedia all’italiana, rielabora quelle che ogni giorno teniamo in testa perché temiamo siano troppo banali o retoriche per descrivere i sentimenti. Che invece nel film eruttano incontrollabili, sbattono come le onde contro gli scogli di Ischia, si infrangono sulle vite come le gocce d’acqua sulla terra. E c’è tanto altro: Gianmarco (Tognazzi) che omaggia Ugo (Tognazzi) di Io La Conoscevo Bene, borgataro patetico da fare male; la sincerità di Valeria Solarino che con pochissime battute costruisce una splendida figura di donna; la Sandrelli che, a quasi vent’anni da L’Ultimo Bacio, ammette “sono così inquieti, i nostri figli”, e restituisce una generazione; e c’è Piovani, eterno e bellissimo e riconoscibile, che onnipresente sottolinea tutto con un cortocircuito dolce-amaro.

Ma su tutto: niente di questo poteva essere possibile se il regista non avesse amato, anche lui ferocemente, questi attori, questi personaggi, questi feticci che dipinge senza ruffianerie, rendendoli tutti verosimili, accarezzandone passioni e piccolezze, componendo un mosaico fatto dalle schegge impazzite di uno specchio rotto, esattamente quello specchio che ci restituisce, che noi lo vogliamo o no, quell’immagine brutta e cattiva che troppe volte nascondiamo sotto la maschera.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.