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Il fortunato debutto registico di Paola Cortellesi.

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023, C’è Ancora Domani è l’esordio alla regia di Paola Cortellesi, e storicamente si incunea in un curioso arco temporale nel quale ben tre tra le più grandi interpreti del cinema italiano decidono di passare dall’altra parte della macchina da presa. Insieme alla vincitrice del David di Donatello come migliore attrice nel 2011 (per Nessuno Mi Può Giudicare di Massimiliano Bruno) debuttano anche Margherita Buy con Volare e Micaela Ramazzotti con Felicità: ma se questa rende evidenti i limiti nella scrittura dei personaggi che scadono spesso in inutili volgarità, e se la Buy ha dalla sua una grande sincerità alla base, ma soffre di crepe nella struttura drammaturgica, il debutto della Cortellesi invece svetta su tutto, grazie ad un film compatto e concretamente personale.

Partendo dalla scelta stilistica del bianco e nero che, associato alla messa in scena e all’impianto drammaturgico, riporta immediatamente e direttamente al neorealismo. Ma attenzione: non è una banale citazione né un richiamo fuori luogo, bensì una scelta precisa che si adatta alla perfezione al cuore del film e al tema scelto. Un artificio narrativo, insomma, valido come altri, che però dimostra una padronanza del mezzo e dello stile non comuni, andando così dritto a mettere in scena la violenza domestica partendo da lontano.

Quello che convince della Cortellesi regista è comunque su tutto la forza e la bontà della sua visione, quello che sceglie di mettere in scena o meglio di non mettere nell’inquadratura: la violenza infatti non viene mai mostrata, ma anzi rimane fuori scena o fuori fuoco, o addirittura trasfigurata. Ed è questo il secondo passaggio più convincente dello stile della neoregista: la leggerezza con cui padroneggia i toni e i generi, ma soprattutto la facilità con cui mette insieme classicità e modernità.

C’è Ancora Domani è un ricco cinema dei contrasti: passa con disinvoltura dal sorriso alla commozione, dalla tensione drammatica alla boutade, grazie alla brillantezza di scrittura prima di tutto e alla consapevolezza del ritmo, senza scadere mai nel cliché quando decide di andare sopra le righe attraverso una felice vena grottesca, o anche quando usa i canoni del musical per mostrare in trasparenza dolore e sopraffazione.

Certo, c’è poi anche il carisma e la presenza della Cortellesi come attrice: egregia da sempre, aveva già mostrato di saper suonare corde altissime e dolorose nell’ingiustamente dimenticato Gli Ultimi Saranno Ultimi (regia sempre di Bruno, suo sodale artistico anche a teatro, luogo dal quale infatti viene la storia di quel film), uno dei suoi ruoli più tridimensionali nella sua epica, assoluta tragicità – qui, nell’opera prima da regista, diventa ancora più sottile nelle sfumature, arrivando addirittura ad un postmodernismo efficacissimo (sempre per quei contrasti di sopra) quando unisce trasversalmente immagini, musica, suoni e parole senza distinzioni di cronologia.

Contrasti che danno vita ad una specie di neorealismo rock (se si vuole imbrigliare il film in una definizione che spazza via i dubbi sui riferimenti alti), con risvolti sociali importanti e messi in scena con intelligenza e senza affaticamenti narrativi; e in questo, sono perfetti i ruoli di Valerio Mastandrea, Giorgio Colangeli ed Emanuela Fanelli che portano la storia sui binari di un incrocio dove si fondono l’umorismo sfacciato di Biglietto Amaro (il finto corto neorealista di Aldo, Giovanni e Giacomo interno a Tre Uomini e Una Gamba) e la modernità di sguardo su sentimenti ed emozioni sfaccettate. Sono forse i volti del film – ai quali vanno aggiunti obbligatoriamente Vinicio Marchioni e soprattutto Paola Tiziana Cruciani – e il taglio e il respiro che la macchina da presa decide di dargli a dare il giusto ritmo, mai demodé, sempre centrato.

Chiudendo quindi con un finale aperto anche se non sembra, per lasciare a chi guarda il potere e/o la scelta di decidere come chiudere la storia, giusto al bivio tra happy end e un finale più amaro.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.