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Il controverso nuovo film del maestro Cronenberg.

Il nuovo Crimes è il primo film ad essere diretto e scritto da Cronenberg senza basarsi sul lavoro di un autore pre-esistente dai tempi di eXistenZ (1999), che a sua volta era il primo film di questo tipo da Videodrome (1983), nota Kim Newman sull’ultimo numero di Sight & Sound.

Il che ha perfettamente senso se si pensa che, dal punto di vista narrativo, eXistenZ era un aggiornamento di Videodrome, in cui non si era più vittima delle immagini televisive bensì dell’immaginario dei videogiochi, all’epoca relativamente nuovo, e Crimes of the Future potrebbe essere il film che dopo due decenni continua questo discorso. Quando? Nell’epoca in cui il corpo è diventato un’opera d’arte, una merce ad uso e consumo dello sguardo voyeuristico altrui e in cui tutto, dalla violenza (chirurgia, tagli con arma bianca) al cibo sintetico, è finalizzato a modellare quest’oggetto che è l’unica cosa sacra che sembra rimasta.

Questo è uno dei motivi per cui Crimes of the Future è l’unico film anglofono degli ultimi 5 anni che sa parlare del presente e vedere oltre, riuscendo ad essere una cronaca di cos’è l’uomo occidentale oggi senza fermarsi a dicotomie maschile/femminile (come Men, Fresh o Una donna promettente, per citare un filone fortunato) banalizzando il tutto con la scusa di riscrivere le regole del genere.

Cronenberg, ricorrendo a scrittori di estrazione variamente underground o andando oltre al genere, ha sempre avuto l’ambizione di dire il suo punto di vista sul contemporaneo. Fatto che suscita inevitabilmente un misto di euforia e scetticismo all’uscita di ogni suo nuovo film: da un lato chi lo riconosce maestro, dall’altro chi pensa che non faccia altro che ripetersi avendo perso la carica eversiva (come se oggi ce ne fosse ancora bisogno). È sicuramente il caso di un autore che sa di essere tale, e che spinge chiunque ad avanzare parallelismi nel macrotesto della sua filmografia. Dopo il cambio di rotta noir di inizio secolo è ritornato su terreni apparentemente più consoni al suo passato: che è ben diverso, a differenza di quanto sostengono i detrattori, del ripetersi perché Crimes è tutto fuorché un remake.

Già in eXistenZ i luoghi erano anonimi, ridotti al proprio significante e alla pura funzione senza sfumature. In Crimes non esistono più vie e coordinate geografiche precise, con tanto di mare e di cartelli in greco (un alfabeto non anglofono), grave metafora di un mondo diventato interamente anonimo, ormai fuori dal tempo e dalla Storia in cui gli umani risiedono qui come altrove, senza lo spettro della distopia che aleggia sulla narrazione.

Piuttosto colpisce quanta avanguardia ci sia in un film narrativo con delle star. La fotografia con luci quasi sempre in campo, tagli diametrali sul volto e prevalenza di tonalità scure, porta alla mente più i recenti lavori del fondamentale Pedro Costa che un qualsiasi horror, evidenziando maggiormente la funzione del dialogo non come semplice vettore narrativo ma quasi come degli statuti del regista per bocca degli attori. Rendere l’autopsia la scena clou è chiaramente un ricordo delle radici d’avanguardia di Cronenberg, (se si pensa che ha abbandonato la strada della scrittura una volta scoperto il cinema sperimentale negli anni ’60) dato che il riferimento più immediato è il caposaldo The Act of Seeing With One’s Own Eyes (1971) di Stan Brakhage, girato senza sonoro in 8mm dal vero. Il parallelismo è rafforzato dal modo in cui il pubblico-voyeur riprende la performance, dai super8 (appunto) agli smartphone (unica presenza di questo oggetto in Crimes). La dimensione temporale vacilla ulteriormente con la presenza degli schermi analogici televisivi durante la perfomance: uniscono costanti della videoarte, dal videowall di Nam June Paik alla serie Reverse Television di Bill Viola, con gli slogan a tutto schermo un tempo parodiati dal canadese Michael Snow (in So is This, 1982).

La presenza di antinomie stimola ulteriormente la visione: c’è il cibo sintetico in un mondo analogico, bagnato dal mare ma con palazzi dall’architettura brutalista, c’è la carne tagliata da un bisturi sotto gli occhi di tutti che convive con organizzazioni che operano in segreto con gli organi, c’è l’idea di unire Brakhage e l’inquadratura finale della Giovanna D’Arco di Dreyer (nel finale). Un film anti-genere, in cui i personaggi sono lasciati in sospeso (che ne è di Kristen Stewart?) e che non si conclude. Dopo aver immaginato un mondo iperreale dove non c’è nulla al di fuori della carne e dello sguardo, Cronenberg ripete il gesto più coraggioso di tutti: lasciare l’ultima parola alla mente dello spettatore.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.