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Lady-Bird foto1

Non la solita commedia americana.

Dopo lo sfortunato e poco visto Nights and Weekends, l’attrice Greta Gerwig è tornata alla regia con Lady Bird, candidato a ben 5 Oscar e oggetto di uno stupefacente consenso unanime in Patria: la stessa sorte avrà, probabilmente, in Italia. Forse perché non è la solita commedia americana come la intendiamo (greve, scurrile) e ambisce a parlare ad una fetta di pubblico molto ampia: sia agli adolescenti, sia (data l’ambientazione) a chi adolescente era agli inizi del secolo, sia a un pubblico che si vorrebbe colto, per il tono certamente adulto nel trattare tematiche con cui esso sente affinità. Già dal trailer gli elementi per un cult ci sono tutti. Ma l’operazione sotto certi aspetti si può reputare fallita per una serie di motivi e stupisce quanto certa critica d’oltreoceano sia diventata di manica larga: non si sa se per mancanza di formazione cinefila, abbassamento dei gusti, conformismo o la riduzione sempre più del cinema a fatto puramente sensoriale e, in ultima analisi, consolatorio.
Eppure, senza risalire ai Mostri Sacri del bianco e nero, la commedia americana, prima e dopo il nefasto filone di American Pie e dei vari Apatow, ha saputo descrivere le storture all’interno del sistema grazie a grandi film come Election e Happiness, oppure, in casi più recenti, Up in the Air e Young Adult. Arrivando a Lady Bird, ciò che sicuramente non gli fa difetto è, appunto, un certo spirito di osservazione: per come riesce a cogliere tutti i tic e i comportamenti che hanno reso la protagonista disillusa e amareggiata nei confronti del suo futuro, per la presenza del campionario di varia umanità tragicomica che la circonda, mettendo sullo stesso piano sia il ragazzo finto alternativo, con tanto di poster in camera dei Cannibal Ox (chi se li ricorda?), che il finto trasgressivo proveniente da una famiglia repubblicana. Nonché, e questi sono i due punti nevralgici su cui si sviluppano i quadri che compongono la narrazione del film, la disagiata relazione con la madre, genesi di tutte le frustrazioni della protagonista, e la descrizione di una periferia che annichilisce tutte le ambizioni culturali di chi è costretto a viverci, abbassando qualsiasi prospettiva di vita. Ma lo scarto tra i film prima citati e quest’ultimo, sta nel modo in cui la Gerwig vanifica gli spunti colti nella prima metà dell’opera, rovesciando il paradigma narrativo di cui i film precedenti si facevano forti. La descrizione rimane cioè fine a se stessa, a essa non segue l’amarezza, non vi è autentica indignazione e in questo modo non si crea alcuna coscienza nello spettatore, Gerwig si limita a ispirare empatia con la protagonista.
Infatti giunto all’ultimo quarto d’ora, il film prende una piega irrazionalistica per chiudere tutte le storie (o i bozzetti, a voler essere cattivi) che aveva aperto, pur di non dare fastidio a nessuno. Prima ci viene mostrata una scuola bigotta e ultra-cattolica, poi dovremmo provare simpatia per le suore; prima abbiamo una madre isterica e repressiva, poi tutti i dissidi si sfaldano con un abbraccio degno di un romanzo Harmony; e dalla descrizione di una provincia in cui nulla può nascere, improvvisamente si passa alla celebrazione di un luogo più poetico della grande città (New York), al ché ci si chiede il perché di quella frase contro Sacramento all’inizio del film. Cala il sospetto che l’intero film sia un grande elogio alla mediocrità (perché la protagonista, alla fine, tale rimane) e non a rimboccarsi le maniche come vorrebbe far intendere: il modello di Frances Ha, a quanto pare, non è stato ben assimilato.
A contestualizzarlo, viene da dire che questo è un tipico prodotto dell’era hollywoodiana durante la caccia alle streghe, ottimo oggetto di analisi per chi vuole studiare i rapporti tra cinema e propaganda (come lo era Moonlight l’anno scorso, agli albori dell’era Trump). Non graffia ma allieta, non crea coscienza ma ci commuove: è un cinema perfettamente consolatorio integrato nel sistema di cui fa parte, e questo fa molta più paura delle storielle narrate all’interno di Lady Bird. Stiamo esagerando? Se si pensa che la Gerwig, in pieno #metoo, è stata la prima a prendere la parola contro Woody Allen, forse no. E se si aggiunge che anche la critica ha smesso di essere severa, aspettiamoci film conformisti e carini come questo.

voto_3

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.