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L’amore, il teatro e altre faccende.

Che alla gente piaccia o meno, Giovanni Veronesi è una delle firme più effervescenti della commedia italiana, quella “moderna” ma ancora “di costume”, quella che cerca di trovare un approccio intelligente, a volte su temi attuali, e quella che valorizza gli attori comici rendendoli protagonisti sulla scena. E c’è stato anche un tempo in cui Veronesi sapeva anche innovare ed essere corrosivo e mai corrivo, firmando le migliori storie di Francesco Nuti (Caruso Pascoski e Willy Signori su tutte) ma anche i suoi brillantissimi esordi (Il Barbiere di Rio ma anche Per Amore Solo Per Amore) e le sue trovate un po’ geniali un po’ bischere (i vari Manuale D’Amore).

Poi qualcosa si è un po’ inceppato, perché dagli anni Dieci in poi qualcosa veniva a mancare nelle sue storie: come se avesse perso la ricetta e l’ingrediente segreto, perso dietro alle fallimentari regie del sodale Leonardo Pieraccioni e nelle sue opere meno riuscite – L’Ultima Ruota del Carro è l’esempio perfetto di film brillantemente politico e sociale che però non riusciva mai ad ingranare.

E allora vien da pensare che al toscanaccio Giovanni ci sia voluto l’incontro salvifico con Pilar Fogliati per riprendere lo slancio: perché già con Romantiche dimostrava di aver ritrovato la verve perduta, ma con Romeo È Giulietta conferma di non avere affatto esaurito la sua vena più fertile. Il suo diciannovesimo film piega Shakespeare, senza sforzo, alle sue motivazioni, riuscendo nella oggi non semplice impresa di raccontare una storia senza sbracarsi sull’amore usandolo come merce di scambio con il pubblico, una storia che invece va addentata fino in fondo perché possa essere assaporata in tutte le sue componenti. C’è l’Amore, certo, ma per poter raccontare le dinamiche interpersonali; e poi c’è il teatro con le sue smanie e manie, c’è insomma una sorta di retrobottega esistenziale dipinto in chiave di satira.

Che poi in scena ci sia un gigante come Sergio Castellitto aiuta, e non poco. Il suo Federico Landi Porrini è un personaggio di quelli che possono riempire la scena o rovinare un film: Castellitto lo riempie con sé stesso e restituisce un regista narcisisticamente autoreferenziale irresistibile nella sua entusiasmante cattiveria, riuscendo a rendere tridimensionale e reale ogni spigolatura caricaturale del suo carattere. Non meno brillante riesce il gioco a due con la Fogliati: che ha già dimostrato, in passato, di avere la giusta grinta e il giusto spessore in maniera però così strabordante da dover essere indirizzata per non deragliare (basta mettere a confronto il riuscitissimo Romantiche e il dimenticabile Odio il Natale).

Sembra in definitiva che sia stata proprio la necessità di prendere la sua energia e incanalarla lungo il giusto percorso il fattore che ha permesso a Veronesi di girare un film pungente e mai deludente, che prende per mano lo spettatore e lo spinge in una comfort zone dove però inanella uno spunto brillante dopo l’altro. Romeo è Giulietta contiene già nel titolo il suo cuore pulsante: il senso dell’identità, in generale (svicolando abilmente e con sottigliezza dalle trappole di genere, un vuoto che viene però riempito con un geniale coup de theatre nella meta-narrazione della pièce), correndo dalle vertigini del caso riprese da Woody Allen fino alle prove fregoliane hollywoodiane da Victor Victoria a Tootsie.

Non meno importanti i satelliti che girano intorno ai pianeti Castellitto/Fogliati: da Margherita Buy (incredibile come una grande attrice riesca ad esplodere anche con tre brevi scene in croce) a Geppi Cucciari, Domenico Diele, Maurizio Lombardi. Certo è che però i due protagonisti catturano ogni traiettoria: fino a quel finale allo specchio dove, in silenzio, c’è un duello di sguardi che rivaleggia con i momenti più alti del cinema italiano contemporaneo, mentre Castellitto riesce – senza usare neanche lo sguardo in macchina – a cambiare traccia interpretativa ogni due secondi, riempendo lo schermo di occhi che sono mondi.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.