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CD foto1

Un film gentile.

Alla sua quinta regia, Antonio Albanese sembra voler fare punto e a capo come autore, mettendo a frutto il lungo percorso che, da comico sulfureo ma sempre attento alle idiosincrasie della vita reale, lo ha portato a diventare attore attento e delicato con lo sguardo, muto e compassionevole, sui dolori quotidiani.

Cento Domeniche racconta allora un piccolo fatto, la vicenda di un uomo (anzi di un piccolo paese del brianzolo Nord Italia) che vede sparire i risparmi di una vita per una truffa bancaria, ma lo fa con grande partecipazione e ancora più profonda intensità. Ma se l’epicentro è chiuso nei placidi pomeriggi di un borgo come ce ne sono tanti, fatto di pranzi frugali e persone perbene, l’obiettivo del film si allarga a dismisura grazie all’intelligenza di una sceneggiatura che vuole restituire dignità a chi il Bel Paese lo costruisce (o l’ha costruito) con fatica e abnegazione, ma che quando arriva il momento di ricevere qualcosa in cambio trova solo la desertificazione.

Cento Domeniche è però, nonostante il vistoso cambio di passo dell’Albanese regista, la chiusura di un cerchio che comincia con Uomo d’Acqua Dolce, a conferma di un percorso – dal 1997 al 2023 – perfettamente coerente nella sua ricerca, nei toni e nei modi.

Perché è un film gentile nella sua mostruosa brutalità. È gentile per come prende lo spettatore per mano e lo accompagna nella discesa agli inferi del suo protagonista, con quei primi 44 minuti dove non c’è una nota di commento musicale, così da restituire il senso di placida assenza prima che si tramuta dopo in lacerante vuoto; è gentile perché è buono con i suoi personaggi nel momento in cui, con sottigliezza d’altri tempi, assimila vittime e carnefici perché il Male e il Bene passano indifferentemente attraverso i corpi di tutti. Ma Cento Domeniche è un film gentile (e rigoroso) anche perché la sua satira, che è la stessa dell’Epifanio/Antonio in Uomo d’Acqua Dolce, non è un’invettiva incattivita ma solo la constatazione di un uomo che il mondo che lo circonda non è (più) a sua immagine, e lo rigetta.

C’è allora una sorta di idealistico allontanamento da una società onnivora e un sistema di valori in cui non ci si riconosce più, da modi di fare furbetti e gretti di pochi contro l’ingenua bonomia dei tanti; perché è insomma il tempo della disillusione per il corpo keatoniano di Albanese, che non sa rassegnarsi al dolore.

Allora l’Albanese autore si fa sempre più vicino agli alfieri moderni della classica commedia all’italiana – Virzì, autore di quel Il Capitale Umano a cui il film si avvicina geograficamente; ma anche Bruno e Milani -, tutti fermi un passo prima della risata, quando la battuta si fa raggelante e si trasforma in pianto: anche se si parte dal castigat ridendo mores, qua c’è poco da ridere, e quel poco sfuma subito via sotto una nube plumbea di angoscia.

L’odissea di un padre spezzato è raccontata con tono partecipe e con un ritmo volutamente in sottrazione: così come si rinuncia per buona parte del film alla colonna sonora, non c’è un algoritmo a dettare i tempi, ma solo un regista che scende in scena e dirige un cast azzeccato (anche se con qualche perdonabile momento di straniamento) dove si applaude a Sandra Ceccarelli, Giulia Lazzarini, Bebo Storti. Non un film corale, certo, però un’opera dove la sicurezza degli interpreti a far fronte unito va di pari passo a quella del paese della storia, Olginate (provincia di Lecco), che risponde come un corpo solo alla sopraffazione.

Almeno finché la vita lo permette. E almeno fino ad un finale quasi sordo (i titoli di coda sono senza musica), con quella soggettiva raggelante, desolata, che va scoperta lentamente insieme a quel campo di un vuoto assordante, abbandonato dal fattore e dal capitale umano.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.