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Quando l’orrore non è circoscritto a un singolo individuo ma è nell’intera società.

Il fatto che Holy Spider esca al cinema in questo periodo, a qualche mese di distanza dall’inizio delle proteste in Iran, scatenate dalla morte della giovane studentessa curda Mahsa Amini, arrestata per strada e percossa dalla polizia morale solo perché non indossava correttamente il velo, provoca in noi un senso di vertigine e di profonda inquietudine.

Il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, qui al suo terzo lungometraggio dopo due prove oltremodo interessanti come Shelley e Border – Creature di confine, ha abbandonato Teheran nel 2002, poco più che ventenne, per trasferirsi in Svezia, dove ha proseguito i suoi studi universitari, e successivamente in Danimarca, dove ha studiato alla scuola di cinema di Copenaghen. Dopo aver diretto Holy Spider, film basato sulla vera storia di uno dei più noti serial killer dell’Iran, colpevole dell’uccisione tra il 2000 e il 2001 di sedici donne, è assai improbabile che possa tornare nel suo paese d’origine.

Ambientato nella città santa di Mashhad ma girato per ovvi motivi in Giordania, il film ripercorre le gesta di Saeed Hanaei, un reduce del lungo conflitto Iran – Iraq, padre di famiglia e devoto musulmano. L’uomo, che di giorno fa il muratore, al calare della sera monta in sella alla sua motocicletta per dare la caccia alle prostitute e adempiere alla sua folle missione, quella di “ripulire” la città santa oltraggiata dalla loro presenza. Il suo modus operandi è sempre lo stesso: si finge un cliente, le porta nella sua abitazione quando la famiglia si trova in visita ai parenti e le strangola col loro velo. La polizia non sembra curarsi più di tanto di dare la caccia al serial killer soprannominato il Ragno perché in fondo uccide “solo” le prostitute. Un giorno però dalla capitale arriva Rahimi, una giornalista intenzionata a scoprire l’identità del fanatico serial killer.

La mia intenzione non era quella di girare un film su un serial killer ma su una società killer seriale. Volevo parlare della misoginia profondamente radicata nella società iraniana. Una misoginia che non è specificamente religiosa o politica ma culturale.

Le dichiarazioni di Ali Abbasi si accompagnano perfettamente alle immagini e alla narrazione del suo ultimo film, un thriller teso e serrato premiato per la miglior attrice – un’intensa e straordinaria Zar Amir Ebrahimi – all’ultima edizione del Festival di Cannes. Holy Spider rappresenta una critica lampante e feroce nei confronti della società iraniana, abbrutita e deformata da un regime che solo in questi ultimi sei mesi ha ucciso centinaia di manifestanti e arrestato migliaia di persone, tra cui registi di spicco come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, rilasciati nei giorni scorsi dopo lunghi mesi di prigionia.

La storia del serial killer conosciuto come il Ragno ha connotati grotteschi e terrificanti, non solo per le motivazioni addotte dall’uomo per giustificare i ripetuti omicidi ma anche e soprattutto per come ha reagito una parte dei media, pronta a giustificare come nulla fosse il suo operato, e del pubblico, capace di celebrarlo come un eroe con tanto di manifestazioni di piazza in sua difesa. L’orrore messo in scena dal regista e sceneggiatore Ali Abbasi non è circoscritto a un singolo individuo ma coinvolge l’intera società iraniana, pronta a santificare un serial killer in nome del fanatismo religioso e di un’ottusa e feroce misoginia radicata in profondità, come dimostrano i fatti di cronaca degli ultimi mesi. Abbasi mette in scena i crimini efferati dell’uomo imprimendo una tensione costante alla narrazione, con immagini che lasciano il segno e provocano disagio e inquietudine nello spettatore, costretto ad assistere al suo folle e mostruoso operato all’interno delle mura domestiche dove vive con moglie e figli. L’uomo esegue il suo compito e la sua missione con goffa routine, senza preoccuparsi più di tanto di nascondere le sue azioni, protetto e aiutato dalla polizia locale che non si cura di dargli la caccia perché in fondo non lo ritiene una minaccia, ma un alleato per la salvaguardia della moralità pubblica. Un sistema, dove la violenza e la repressione si tramutano in normalità, che può solo generare mostruosità ed emulazione, come si evince dall’ultima, perturbante e angosciante sequenza estrapolata dai filmati della videocamera della giornalista.

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Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.