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CHALLENGERS

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Gli amici/amanti/duellanti di Guadagnino.

È un film clamoroso Challengers di Luca Guadagnino, scelto per aprire l’80ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia per poi essere ritirato dalla produzione a causa dello sciopero degli attori hollywoodiani. È un film nato come un progetto su commissione ma che Guadagnino ha saputo far suo nell’imperniarlo di passione e desiderio dalla continua, persistente e protratta tensione (omo)erotica. Tratto da una solida e magnifica sceneggiatura di Justin Kuritzkes (il marito di Celine Song, la regista e sceneggiatrice di Past Lives), Challengers si avvale della portentosa e virtuosistica regia di Guadagnino, di una entusiasmante colonna sonora – firmata da Trent Reznor e Atticus Ross (i migliori su piazza, già autori delle musiche di Bones and all e di svariati film di David Fincher) – dai ritmi elettronici martellanti, frenetici e incalzanti e di un trio di interpreti in stato di grazia composto da Zendaya (anche produttrice), Josh O’Connor e Mike Faist.

Tashi Duncan è un’ex giovane prodigio del tennis, divenuta allenatrice in seguito a un terribile infortunio sul campo che ne ha stoppato la carriera sul nascere. È sposata con Art Donaldson, un fuoriclasse che dopo aver vinto ben sei titoli dello Slam sta attraversando una fase opaca e interlocutoria, fatta di sconfitte e delusioni. Per rilanciare la sua carriera, Tashi iscrive il marito a un Challenger, un torneo di seconda categoria che dovrebbe vincere facilmente senza incontrare avversari di pari livello, riacquistando così fiducia in se stesso per poi provare a conquistare gli US Open, l’unico grande trofeo che ancora gli manca per completare il Grande Slam. L’ostacolo alla strategia di rilancio messa a punto da Tashi è rappresentato da Patrick Zweig, il suo ex fidanzato nonché ex migliore amico di Art, mancata promessa del tennis in gara nello stesso torneo. Il destino beffardo li vede fronteggiarsi e contendersi il trofeo in una finale che rappresenta ben più di una semplice partita di tennis.

Non siamo davanti a un film sportivo classicamente inteso, sebbene le scene sul campo da gioco siano costruite in modo magistrale, con soluzioni registiche originali e intuizioni sorprendenti a livello visivo e sonoro. Il tennis per Guadagnino è un puro pretesto per dar vita a un mélo triangolare costruito attorno a una finale di un torneo challenger che vede fronteggiarsi due ex amici divenuti rivali in amore e che si apre a una serie infinita e vertiginosa di flashback, che ci rimbalzano indietro nel tempo di tredici, dodici e otto anni, fino alle settimane e alla sera che precedono il confronto sul rettangolo di gioco. Un duello fatto di corse, sudore, gelosie, inganni, tradimenti, rimpianti, frustrazione e ultime possibilità che sul finale si trasforma in un triello leoniano, sino a condurci a un finale esplosivo e liberatorio. E in fondo il lungo match che ci accompagna per tutta la durata del film, continuamente interrotto e inframezzato da un flashback dopo l’altro, inizia solo alla fine, al tie break decisivo del terzo set. È lì che il fragile campione Art e l’immaturo e strafottente Patrick, finalmente, possono cominciare a giocare a carte scoperte, gettare la maschera e ritrovare se stessi e il piacere di giocare assieme come quando erano due ragazzi spensierati e di belle speranze. È un tie break che si trasforma in un salto spazio temporale, per tornare a quando tutto è iniziato e a quando tutto era ancora possibile, a un periodo della loro vita – l’adolescenza – ormai concluso da tempo. In quei concitati e forsennati scambi, con soggettive impossibili e inorganiche di una palla che rimbalza da una parte all’altra del rettangolo di gioco e con riprese dal basso altrettanto impossibili (come se la macchina da presa fosse posizionata all’interno e al di sotto del campo con la superficie composta da un vetro trasparente), ritroviamo i due amici di una volta con la loro passione e vitalità. E Tashi, nuovamente spettatrice come lo era stata tredici anni prima nella scena del bacio a tre (in omaggio a Bertolucci), per di più nella stessa identica posizione, quando si era fatta da parte per osservare i due amici/amanti/sfidanti/contendenti, può tornare ad esultare e urlare come ai tempi in cui era una giovane e agguerrita promessa del tennis mondiale che annientava le avversarie sul campo. Insieme a Tashi esulta il pubblico sugli spalti e può esultare il pubblico al cinema, al termine di uno scambio estenuante e sfiancante che ha il sapore di una relazione (1) e di una prestazione sessuale, chiuso da un’invasione di campo e da un abbraccio caloroso e commovente.

(1) Il tennis è una relazione. Sono queste le parole che usa Tashi per descrivere ad Art e Patrick il suo modo di viverlo e interpretarlo in campo.

voto_5

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.