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Scene di vita quotidiana, grottesche e surreali, in quel di Teheran.

Presentato al Certain Regard di Cannes 76, Kafka a Teheran arriva nei nostri cinema per merito di Academy Two che lo distribuisce con un titolo italiano particolarmente ispirato e azzeccato, perfetto per descrivere l’assurda, macchinosa e angosciosa burocrazia delle istituzioni iraniane.

Co-diretto e co-sceneggiato da Ali Asgari e Alireza Khatami, Kafka a Teheran si apre con un prologo suggestivo, una sorta di ouverture con una lunga e insistita inquadratura dall’alto sulla capitale iraniana, ripresa nel passaggio dalla notte al giorno. Girato con un budget esiguo ma con ingegno e creatività, il film si compone di  nove segmenti autonomi e auto-conclusivi. Nove, brevi e repentini “movimenti” di una sinfonia grottesca sulle tante storture e contraddizioni che attanagliano la società iraniana, in balia di un regime sempre più folle e paradossale. Ad esclusione del prologo, ciascuno dei vari segmenti che compongono questo ritratto al vetriolo della città di Teheran e delle sue istituzioni è girato in interni, in un’unica sequenza e con la macchina da presa fissa. Ogni episodio è introdotto dal nome della persona inquadrata e filmata dalla macchina da presa, sottoposta a domande, interrogatori, umiliazioni o vere e proprie vessazioni e molestie da parte di un interlocutore costantemente fuori campo, di cui sentiamo solo la voce. I protagonisti dei nove quadretti di vita quotidiana sono persone comuni alle prese con situazioni assurde e grottesche, quasi surreali e inverosimili ai nostri occhi ma assolutamente plausibili e realistiche all’interno di un sistema burocratico rigido, intransigente e ottuso come quello che caratterizza il regime iraniano. Si va dal neo papà a cui all’anagrafe viene negata la possibilità di chiamare il figlioletto David perché si tratta di un nome occidentale, alla bambina dai capelli colorati di rosso vestita con jeans, maglietta e scarpe da ginnastica all’interno di un negozio di abbigliamento per acquistare la divisa scolastica che le coprirà completamente abiti e capelli, passando per la giovane donna alle prese con un colloquio di lavoro che sfocia in molestie e allusioni sessuali o per l’uomo in cerca di un’occupazione che si vede sottoposto dal potenziale datore di lavoro a uno spiacevole e insensato esame religioso che nulla ha a che vedere con l’ipotetico impiego. Che si tratti di un impiegato dell’anagrafe, un poliziotto, una dirigente scolastica, un imprenditore o datore di lavoro, l’interlocutore perennemente fuori campo rappresenta l’espressione diretta o indiretta del totalitarismo teocratico iraniano, teso a reprimere le libertà individuali, dettare e imporre regole stolidamente ferree e disumane, esercitando un abuso di potere e un controllo pressoché totale sulla popolazione.

Scritto con acume e intelligenza, Kafka a Teheran è un film di coraggiosa e aperta denuncia nei confronti di un regime – sempre più impaurito per le crescenti proteste di piazza e di conseguenza intransigente e violento – che reprime, vessa e umilia quotidianamente la popolazione. Un regime incapace di intercettare e decifrare gli evidenti e numerosi segnali di un tracollo che si spera possa essere il più vicino possibile. Nell’epilogo apertamente metaforico, dove un violento terremoto rade al suolo la città, si passa dal soffocante e angusto formato in 4:3 utilizzato per i nove episodi a una dimensione a tutto schermo, più ampia e ariosa, volta a simboleggiare la rovinosa caduta del regime e la futura ricostruzione. Del resto il fallimento e le storture di questo fatiscente totalitarismo teocratico, simbolo di un patriarcato goffo e morente, erano già al centro del bellissimo e fluviale Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustayi, dove nel finale, altrettanto allegorico, si assisteva al vecchio e morente Iran costretto a cedere il posto a un paese nuovo, popolato da bambine in festa allegre e sorridenti. Non a caso, in Kafka a Teheran sono proprio i due personaggi femminili più giovani che simboleggiano il sopraggiungere di un futuro inarrestabile e la trasformazione della società iraniana. La prima è la bambina che dopo essersi provata e tolta la grigia e opprimente divisa per la cerimonia scolastica, torna a sorridere e a ballare davanti allo specchio del negozio al ritmo della musica che fuoriesce dalle sue cuffie colorate. La seconda è l’adolescente che ribalta le dinamiche del potere e volge a suo favore l’interrogatorio – spiacevole e intimidatorio – a cui l’ha sottoposta la preside nel suo ufficio, dopo aver saputo da un bidello delatore che è arrivata a scuola su una moto guidata da un ragazzo. Che il regime lo voglia o meno, il nuovo Iran è già una realtà in divenire dove i giovani e le donne guardano al futuro con coraggio e speranza. Ci auguriamo che assieme a molti altri loro colleghi attualmente perseguitati e vessati dal regime, ne possano fare parte anche Ali Asgari e Alireza Khatami, conosciutisi alla Mostra di Venezia nel 2017 per poi iniziare a collaborare fino a girare questo film ribelle e clandestino.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.