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BENVENUTI A MARWEN

BENVENUTI A MARWEN

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Nel mondo di Mark.

Tratto da una storia vera, già al centro del documentario Marwencol di Jeff Malmberg passato al Biografilm Festival nel 2011, Benvenuti a Marwen ha una struttura talmente fragile e delicata, talmente avulsa ed estranea al panorama cinematografico contemporaneo, da non avere un preciso target di pubblico a cui riferirsi. Del resto Robert Zemeckis, dopo aver realizzato per anni film di enorme successo come Ritorno al futuro, Chi ha incastrato Roger Rabbit, Forrest Gump e Cast Away, sta inanellando un flop dietro l’altro al botteghino, compreso questo suo ultimo lavoro che in America (ma anche da noi la musica non cambia) ha ottenuto lo stesso, magrissimo, risultato di The Walk, il suo terz’ultimo lungometraggio uscito nel 2015.

Il nuovo film di Zemeckis si apre con una doppia citazione da Allied, il suo precedente lungo, da cui provengono la stessa ambientazione storica, la Seconda Guerra Mondiale, in cui il protagonista colloca il suo mondo di fantasia in miniatura, e il titolo, col camion dei traslochi che compare sullo schermo dopo pochi minuti con su scritto appunto la parola “Allied”. Il grande autore americano non si ferma qui, più avanti continua a divertirsi e autocitarsi con la macchina del tempo giocattolo modellata sulle fattezze della DeLorean DMC-12, ripresa direttamente da uno dei suoi titoli più importanti e iconici, l’imprescindibile Ritorno al futuro.

Nel trasporre sullo schermo la drammatica vicenda di Mark Hogancamp, talentuoso fumettista rimasto vittima di un brutale e feroce pestaggio che lo ha ridotto in fin di vita e lo ha privato della memoria, Zemeckis gioca su due livelli e due registri differenti che si alternano in continuazione, con l’animazione in motion capture – a cui era già ricorso all’inizio del nuovo millennio per realizzare Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol - utilizzata per descrivere il paese immaginario di Marwen (situato in Belgio durante la Seconda Guerra Mondiale) dove il protagonista si rifugia per cercare di esorcizzare e superare i suoi traumi. Questo avvicendamento continuo tra riprese tradizionali e scene girate in motion capture produce a volte un effetto straniante, togliendo fluidità e scorrevolezza alla narrazione, che procede appunto tra vita immaginaria, in cui il protagonista si trasforma nel Capitano Hogie impegnato a combattere i nazisti (che hanno i volti e le fattezze dei suoi aggressori) con l’aiuto di un manipolo di ragazze guerriere armate fino ai denti (bambole rassomiglianti a donne che conosce e frequenta) e vita quotidiana, in cui Mark scatta fotografie ai suoi preziosi modellini e lavora in un bar circondato dall’affetto e dal sostegno dei suoi compaesani.

Un film empatico e coraggioso incentrato su un uomo, interpretato da un dolce e misurato Steve Carell che presenta diversi punti di contatto col Forrest Gump di Tom Hanks, rimasto senza memoria e senza lavoro (dopo l’aggressione non sarà più capace di disegnare), divenuto fotografo di un mondo in miniatura popolato da bambole per continuare a esprimere il suo talento e cercare di superare l’episodio traumatico, con una passione sfrenata per le scarpe da donna coi tacchi alti, che a suo dire non va considerata come un semplice feticismo ma come un modo per percepire la vera essenza delle donne. L’universo femminile, di fondamentale sostegno nel difficile percorso intrapreso da Mark per esorcizzare le sue paure, occupa un posto importante nel nuovo lavoro di Zemeckis che tuttavia, paradossalmente, non riesce a caratterizzare e a dare un’introspezione psicologica adeguata ai personaggi femminili, i quali alla fine risultano poco credibili e solo abbozzati sia nella dimensione reale che in quella di fantasia.

Malgrado questi lievi difetti non si può non voler bene a Robert Zemeckis, che a quasi settant’anni non si è ancora stancato di sperimentare, osare e innovare. Un autore lontano dalle mode del momento, desideroso di proseguire un percorso artistico coerente e fedele alla propria poetica, senza preoccuparsi più di tanto di un pubblico sempre più pigro e poco curioso e che da qualche anno purtroppo sembra avergli voltato le spalle in cerca di un intrattenimento facile e disimpegnato.

voto_3

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.