Sign In

Lost Password

Sign In

BILLY LYNN – UN GIORNO DA EROE

BILLY LYNN – UN GIORNO DA EROE

Billy Lynn foto3

Lo spettro dell’eroe.

Il nuovo film di Ang Lee, regista taiwanese trapiantato a Hollywood con alterne fortune e benvoluto dall’Academy che lo ha premiato per la miglior regia per I segreti di Brokeback Mountain e Vita di Pi, sembra essere uno di quei progetti destinati in partenza al suicidio commerciale, al sonoro e fragoroso flop al box office. Nel constatare che è stato realizzato e prodotto anche con capitali statunitensi, oltre che cinesi e britannici, verrebbe quasi da pensare che alla TriStar Pictures sono completamente ammattiti. Uscito in America lo scorso novembre, Billy Lynn: un giorno da eroe ha ottenuto un incasso inferiore ai due milioni di dollari, a fronte di un budget di circa quaranta.
Durante il secondo conflitto iracheno alcuni soldati della squadra Bravo si rendono protagonisti di una pericolosa azione di guerra, immortalata per caso dalle telecamere di una televisione. Trasformati di colpo in eroi nazionali, rientrano in patria per due settimane per affrontare un Victory Tour fatto di interviste, comizi e la partecipazione come ospiti d’onore alla partita di football del Giorno del Ringraziamento dei Dallas Cowboys. L’indomani li attende il rientro sul fronte iracheno, che sembra essere diventato la loro unica collocazione possibile.
Qualcuno ha ipotizzato che le stroncature da parte della critica d’oltreoceano e il generale disinteresse del pubblico americano siano da ricercare nelle modalità con cui Ang Lee ha realizzato il film, girato con tecniche innovative (High Frame Rate a 120 fotogrammi al secondo, in 3D e con una risoluzione nativa in 4k) non ancora supportate dalla stragrande maggioranza delle sale cinematografiche. Probabilmente i motivi di questo insuccesso annunciato risiedono altrove, ovvero nell’amaro e sarcastico atto d’accusa nei confronti di una società e di un sistema che trasforma dei giovani soldati in carne da macello per i media e per lo showbiz, in manichini da posizionare sul palco di uno spettacolo che si consuma nell’intervallo di un match di football. Tratto da un romanzo di Ben Fountain, Billy Lynn: un giorno da eroe è uno dei film più politici, amari e disillusi prodotti in America negli ultimi lustri, diretto non a caso da un regista che viene da fuori ma che vi lavora da svariati anni. Un’opera forte e diretta, intenta a scoperchiare il vaso di Pandora dell’America contemporanea senza fare sconti a nessuno. Si salvano in pochi nel nuovo film di Ang Lee, giusto la squadra della Compagnia Bravo, tornata a casa per pochi giorni per essere celebrata sotto la luce dei riflettori, o meglio usata-sfruttata dalla macchina organizzativa a stelle e strisce che in superficie rende omaggio all’eroismo dei soldati per poi risputarli al fronte dopo averli spremuti a dovere. Giovani uomini che appartengono quasi sempre alle classi più povere e proletarie del Paese, composti in larga parte da latini e afroamericani. Ragazzi che non sono e non si sentono affatto degli eroi e che alla fine possono contare solo sullo spirito di gruppo e sul sostegno dei propri compagni, gli unici in grado di capire e comprendere cosa significhi andare in guerra. Il cinema americano (1) si è occupato più volte di queste tematiche, sempre tristemente attuali dal secondo conflitto mondiale ad oggi, per una nazione che è quasi sempre presente e protagonista negli scenari di guerra internazionali e che ha un costante bisogno di soldati da sacrificare sull’altare della patria, da mandare al fronte per “difendere ed esportare la democrazia” e soprattutto per tutelarne gli interessi economici e politici. Soldati lasciati poi soli e indifesi una volta tornati a casa, spesso stravolti e affetti da sintomi da disturbi post traumatici da stress, impossibilitati a riadattarsi a una normalità e una quotidianità ormai smarrite e aliene. Al rientro non trovano più una loro collocazione, un modo di reintegrarsi in società, malvisti e mal tollerati dai propri connazionali, forse perché testimoni scomodi e imbarazzanti di una guerra e di un orrore senza fine. Uomini utilissimi al fronte ma terribilmente fuori posto a casa, dove anche i cosiddetti eroi come Billy Lynn e i suoi compagni sono elogiati davanti ai riflettori ma insultati, derisi e denigrati subito dopo (o anche durante lo show musicale, col ballerino che offende il protagonista costretto a star fermo e immobile come un pupazzo). Anche chi, come la cheerleader, si mostra dalla parte di Billy in realtà è attratta dall’eroe, non dal ragazzo, s’infatua del soldato che DEVE tornare al fronte (perché il suo posto e la sua ragione d’essere e d’esistere sono lì) a fare il suo dovere, per “proteggere” i cittadini americani e consentire loro di continuare a vivere la loro tranquilla e noiosa routine quotidiana. Allora è meglio rispedirli in guerra e possibilmente farceli rimanere per rimpatriarli poi in posizione orizzontale, la più consona e adatta per conferire loro rispetto e onorificenze.
Nulla è casuale nel nuovo, maiuscolo, film di Ang Lee che decide di far interpretare due ruoli minori, ma essenziali e nevralgici ai fini della narrazione, a Steve Martin e Chris Tucker, volti noti al grande pubblico sebbene siano quasi spariti dalle scene negli ultimi anni. Il primo si cala negli sgradevoli panni del magnate arrogante e spudorato, proprietario della squadra di football che ospita i ragazzi della Compagnia Bravo, il secondo è l’impresario cinematografico intento a trovare possibili acquirenti a cui cedere i diritti di sfruttamento della loro storia. Quest’ultimo, dopo aver ventilato ai ragazzi possibili guadagni esorbitanti, cerca di svenderli al primo, che vorrebbe trarne il massimo profitto sborsando il meno possibile. Se gesti di ribellione non sembrano più possibili o attuabili nella nostra società e quindi di riflesso in quel poco che resta del cinema d’impegno civile, allora l’unico gesto rivoluzionario sembra essere ridotto a una forma di resistenza ostinata e malinconica che spinge i protagonisti a rispedire al mittente l’offerta/elemosina, “perché a volte niente è meglio di qualcosa”.
Un’opera magistrale, tecnicamente all’avanguardia, racchiusa in un’unica giornata ma inframezzata da diversi flashback di guerra, perfetta per la nuova era Trump (e il magnate impersonato da Steve Martin lo ricorda non poco) nonostante sia ambientata nell’era Bush e uscita agli sgoccioli dell’era Obama.

(1) Non solo il cinema ma anche alcune serie tv statunitensi hanno affrontato questo argomento con risultati davvero notevoli e interessanti, come avvenuto di recente con Quarry , lo show televisivo in otto puntate ambientato nell’America dei primi anni ’70 che ha per protagonista un veterano della guerra del Vietnam. Prodotto nel 2016 da Cinemax, ideato da Michael D. Fuller e Graham Gordy a partire dai romanzi noir di Max Allan Collins, è stato trasmesso in Italia su Sky Atlantic tra metà dicembre e inizio gennaio.

voto_5

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.