I Gucci, ma anche no.
“Le dispiace chiamarmi Patrizia Gucci?” Da questa precisazione puntigliosa, da questa richiesta che Patrizia Reggiani seduta sul banco degli imputati per l’omicidio dell’ex marito Maurizio Gucci pronuncia con la caparbietà di chi ha lottato con le unghie e con i denti per fare parte della famiglia, per essere cioè riconosciuta una vera Gucci – di qui la sua costernazione per il menefreghismo con cui il vecchio tycoon Aldo tratta i falsi – da questa domanda è forse il caso di partire per parlare di House of Gucci, un film che mi pare emblematico proprio perché opaco e per niente scintillante come forse ambirebbe ad essere.
Dichiaro subito che non mi va di cedere alla facile tentazione di catalogare il film come una saga della grandeur ridotta ai minimi termini, from riches to rags: c’è Al Pacino che fa il patriarca, d’accordo, ma mi pare che davvero poco ci possa importare che qui si faccia il verso al Padrino, franchise di riferimento ormai per qualsiasi stagione (1). Sai che grande idea: una dozzinale storia familiare di amori, vendette, rancori, colpi bassi, frodi fiscali e cronaca nera molto più vicina a una Dynasty del grande schermo (appropriatamente annacquata e sdrucita ad uso e consumo del pubblico boccalone) che ai capolavori di Coppola sarebbe il necessario aggiornamento e ammiccamento al degrado dello sguardo e della mitopoiesi della contemporaneità. Troppa grazia e troppo autorialismo, come se con il regista di Alien in regia le cose si potessero riassumere in schemi così semplici. Voglio dire, scansando le incomprensioni: non facciamoci impressionare dalla quantità di paccottiglia che c’è sullo schermo (neppure così tanta) o, anche, da quella che ferisce le nostre orecchie (di quella ce n’è proprio a profusione, invece).
House of Gucci non ci mostra le miserie e la fasullaggine kitsch del casato Gucci per adombrare il nostro presente ridicolo. Non sa servirsi delle pompe e del lusso pataccaro ostentati da un pugno di arricchiti senza intelligenza per mettere in rilievo la beata stupidità da soap con cui ci pasciamo grati delle contraffazioni e del posticcio odierni. Vi ambirebbe, però: e quindi è inadeguato malgrado e al di là dei tratti e delle palesi intenzioni satiriche, dei quali del resto è sempre buona idea diffidare in partenza (2). La satira dovrebbe mordere, ma questi Gucci inscenati da Ridley Scott fanno scattare più la pietà che il sogghigno, più la commiserazione che la repulsione: con la parziale eccezione di Maurizio che da impacciato avvocato alle prime armi è pronto a sfidare le ire paterne pur di sposare la parvenue Patrizia ma poi si trasforma in usurpatore delle fortune di famiglia e in traditore degli affetti più cari (però con pronto il contrappasso per la sua tracotanza vile: l’incompetenza manageriale lo porta a farsi fare le scarpe dall’infingardo consulente Domenico De Sole). Sic et simpliciter: se ci mettiamo in testa di arrivare alla quadratura del cerchio, a una dissezione razionale e perfettamente coerente di House of Gucci, non ci siamo proprio, non ce la possiamo fare.
Cos’è allora e piuttosto questo film, una volta rifiutate le interpretazioni che lo vogliono congruente e compatto veicolo di idee, con buona pace della critica che pretende sempre di scorgere capolavori, poco importa se volontari o no? È un pastrocchio squinternato che raramente riesce ad essere all’altezza dei suoi presupposti di sberleffo e delle sue mire a stabilire facili parallelismi tra gli entusiasmi di un’epoca stolta e ottimista e le ingenue aspettative di quelle che la seguono (3). Ma non per questo risulta meno stuzzicante, a ben pensarci. Chi fa la storia in House of Gucci sono infatti i mostriciattoli, gli esclusi, i reietti alla ricerca di una legittimità e di una rivalsa. Ossia Paolo, il Gucci illuso e ripudiato, goffo e minorato che suscita malinconia nonostante i consueti istrionismi di Jared Leto (qui meno fini a se stessi che altrove, comunque eccessivi ma che importa): una delle scene più crudeli del film è quella della sfilata interrotta dalla polizia, con la moglie di Paolo che canta a squarciagola. E Patrizia, l’estranea, l’outsider indigesta, il brutto anatroccolo pronto a tutto per sentirsi integrato nella famiglia e fregiarsi del suo nome, il marchio tanto agognato e reputato (Lady Gaga è invece perfetta per il ruolo). Sono loro che fanno precipitare ogni cosa verso il baratro, con la loro testarda e spesso ottusa brama di accettazione, col loro status di vittime più o meno designate e la capacità di trasformarsi in carnefici. House of Gucci crede di parlare soprattutto del glamour farlocco di un impero e della sua allure che si protrae nel tempo facendo gola ai gonzi imbevuti del bisogno di distinzione sociale. Ma finisce col far giganteggiare gli scemi e i criminali in una danza di azioni ed effetti imprevisti che lascia un sapore strano in bocca (e si può capire perché i Gucci di oggi minaccino azioni legali). I conti non tornano? Forse è il destino di tanta mediocrità e squallore, benché il film non sembri neppure una dissertazione sull’inevitabilità di una caduta. E dunque? Dunque rassegniamoci e godiamoci lo spettacolo. House of Gucci è proprio come la famiglia che rappresenta: un hapax, un caso a sé stante, un componimento (sovrac)carico di cattivo gusto e scempiaggini che significa tanto ma più probabilmente niente. Come la moda, e come la battuta destinata a diventare epitaffio del film. Nel nome del padre, del figlio e della famiglia Gucci. Scusate se è poco.
(1) Rimando alla mia recensione di Qui rido io per l’accorto riuso che ne ha invece fatto Mario Martone.
(2) La postdatazione del film rispetto agli eventi reali (Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani si conobbero nel 1971, non nel 1978, e si sposarono nel 1973) è segno della volontà di spostare negli sfavillanti e superficiali anni 80 il cuore del racconto, per farne un ponte verso la nostra epoca attratta altrettanto ciecamente da bei lustrini, griffe e idiozie.
(3) Prendiamo le musiche: l’inizio è un bell’esempio del metodo seguito. Quando Patrizia entra in scena ancheggiando sui tacchi si sente La ragazza col maglione di Pino Donaggio, 1962, scanzonata hit dei tempi del Boom e della Dolce Vita; poco dopo il refrain della festa da discoteca in cui conosce Maurizio è la celebre On the Radio di Donna Summer, 1979. E più in là: quando Maurizio prende servizio nella ditta del padre di Patrizia sentiamo Caterina Caselli e la sua Sono bugiarda, 1967, mentre al matrimonio dei due risuona Faith di George Michael, 1987. Più avanti ci sono altre e numerose scelte musicali assai eterogenee, verosimilmente per stabilire link tra le epoche attraversate dal mito di Gucci, ma ancor più per rinforzare l’idea di farsa di cattivo gusto che il plot vuole additare.
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