Un film giusto e imperfetto.
“Io sono un uomo libero!” ha tuonato all’ormai famigerata conferenza stampa veneziana Gianni Amelio all’indirizzo di un noto critico cinematografico, reo a suo dire di aver adoperato una frase negativa (finita poi nel titolo del pezzo sul suo giornale) a proposito del suo precedente film, Hammamet.
Non ci interessa qui ritornare sull’infausto atteggiamento e comportamento del regista, ma è palese che si tratti della spia di un rapporto burrascoso con gli esegeti del suo lavoro. La critica o almeno una parte di essa non ha infatti mai avuto troppa venerazione della filmografia di Gianni Amelio. Certo, tutti lo considerano un autore importante del nostro cinema eppure, se si esclude forse Il Ladro di Bambini che mise d’accordo più o meno tutti, non esiste praticamente un suo film degli ultimi trent’anni che non abbia sollevato (anche) abbondanti riserve. Non ebbe l’unanimità neppure il coraggioso, lirico ed ellittico Così ridevano, nonostante il Leone d’oro a Venezia 1998; e figuriamoci Lamerica, a parere di chi scrive il suo capolavoro, troppo brutale e sfacciato, visionario e disperato (Gianni Canova su “La Voce” parlò di Apocalypse Now nell’Albania postcomunista). E nel nuovo secolo peggio che peggio: dalla larga incomprensione per l’eccellente Le Chiavi di Casa (2004) alla sufficienza con cui sono stati accolti gli ultimi (per molti versi minori, ma comunque interessanti) La Tenerezza (2017) e Hammamet (2020), per non dire del malcelato disdoro riservato all’acuto e in superficie indifeso L’intrepido (2013), che mi sentirei di difendere senza neppure pensarci troppo.
Questo breve excursus per dire che questo nuovo film del regista calabrese ispirato allo scandalo del caso di Aldo Braibanti, filosofo e intellettuale condannato alla prigione sul finire degli anni Sessanta per il reato di plagio di un giovane discepolo (ma in realtà per punire la loro relazione omosessuale), rischia di cadere sotto i colpi di maglio di una cattiva stampa né più né meno dei precedenti, e con l’aggravante della polemica lidense a seppellirlo senza appello. Ad Amelio, per quel che ho potuto leggere e sentire, si imputa di aver fatto un film vecchio, televisivo, grevemente didascalico, a tratti macchiettistico (il fidanzato della Serraiocco), stilisticamente incolore. Come se Amelio non avesse mai praticato una certa letteralità, a partire dalle sue metafore (e mi sovviene per esempio la scena in cui Enrico Lo Verso in Così ridevano se ne rimaneva isolato dai manifestanti comunisti, tutto assorto nel pensiero del fratello minore). E come se il film dal taglio “televisivo” fosse da condannare a priori e per forza come banale e semplicistico.
Certo, Il Signore delle Formiche è un’opera a tesi, che racconta il passato per additare l’oggi (e a ragione, se c’è chi ancora, a destra e ai piani alti, discetta di “devianze”; ma neppure la sinistra viene assolta, visto il ritratto della direzione giornalistica in seno all’Unità) e che ha una seconda parte che nel chiuso dell’aula del tribunale e nella contrapposizione anche fisiognomica con i rappresentanti della Legge rischia di “santificare” più del dovuto il personaggio di Braibanti, finemente sbozzato invece nella prima metà con le sue ossessioni, le collere, le contraddizioni, le vanità. E tuttavia è un film in cui Amelio si interroga con l’abituale serietà morale su quale forma sia la più adeguata a ciò che racconta (1). Dopotutto se l’intento è di parlare a un’Italia distratta e dimentica – laddove quella degli anni del processo era soprattutto settaria e parruccona – sembra meglio rivolgervisi con gli strumenti che essa più può capire, per poveri che gli stessi possano apparire.
Al netto dei difetti sopra riscontrati, Il Signore delle Formiche è ancora una volta un film in cui Amelio tenta di raccontare le nefandezze della retriva mentalità e società italiana stando risoluto dalla parte dei perseguitati. La retorica e l’autoindulgenza ogni tanto sembrano prendergli la mano, benché sia probabilmente un caso che il giovane “plagiato” (ottimo esordio per Leonardo Maltese), testimone al processo dopo essere stato sottoposto ad elettroshock, abbia lo stesso sguardo perduto nel vuoto dell’emigrato Pietro (Francesco Giuffrida) di Così ridevano dopo aver scoperto che il fratello maggiore si è dato alla malavita. Ma al tirare delle somme, non ci pare di doverci iscrivere al partito di quelli che condannano Amelio: la passione morale e civile che traspare dal suo film giusto e imperfetto ci fa un po’ perdonare anche la debolezza di un personaggio, quello del cronista di Elio Germano, che spesso sembra avere solo la funzione di esile appiglio positivo, in mezzo a tanto squallore, per uno spettatore di retti pensieri.
(1) Nell’intervista a Giulio Sangiorgio su FilmTv n. 36, Amelio sostiene che (alla sceneggiatura) “abbiamo lavorato come se si trattasse di una storia di oggi, senza scrupoli esagerati di fedeltà. Il famoso concetto che il cinema coniuga sempre il presente non riguarda solo la forma ma la sostanza.”
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