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La Camelot perduta.

Presentato in Concorso all’ultima edizione della Mostra di Venezia, dove ha vinto il Premio Osella per la miglior sceneggiatura firmata da Noah Oppenheim, arriva finalmente nelle nostre sale l’ultimo film diretto da Pablo Larraín. Diciamo subito che Jackie non è un biopic in senso stretto, così come non lo era Neruda, il penultimo lavoro del regista cileno che prendeva a pretesto la figura del poeta per proseguire la ricognizione politica, sociale e culturale del suo Paese.
A una settimana di distanza dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, l’ormai ex First Lady concede un’intervista a Theodore H. White, giornalista di Life, per ripercorrere i terribili eventi di quel tragico giorno a Dallas – il 22 novembre del 1963 – che segnarono la fine di un’epoca e che la videro protagonista. Scossa e sconvolta da una perdita così dolorosa e traumatica, ma al contempo forte e determinata nell’organizzare e mettere in scena i maestosi e imponenti funerali di Stato sul modello di quelli di Abraham Lincoln (altro presidente americano assassinato quasi un secolo prima), destinati ad imprimersi a lungo nell’immaginario collettivo e a consegnare alla storia il mito di JFK.
Jackie è il film delle prime volte per Larraín. È il suo primo titolo in lingua inglese girato negli Stati Uniti, lontano dal suo paese d’origine sia a livello geografico che tematico. È anche il suo primo film incentrato su una figura femminile (interpretata da una straordinaria Natalie Portman candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista), una delle più note e importanti del XX secolo. Infine per la prima volta – escludendo Fuga, la sua acerba ma suggestiva opera d’esordio – si ritrova a dover fare a meno della fotografia del sodale e fidato Sergio Armstrong, sostituito dal francese Stéphane Fontaine (Il profeta, Elle).
Alle prese con un progetto commissionatogli da Darren Aronofsky, che lo ha prodotto, Larraín riesce a mantenere quasi inalterati il suo rigore e la sua coerenza stilistica, tracciando un fil rouge con la sua filmografia precedente e portando avanti la sua poetica in un contesto economico-produttivo a lui estraneo e inusuale.
In Jackie non si affronta tanto l’elaborazione del lutto, la narrazione è circoscritta ai pochi giorni che intercorsero tra l’omicidio di Kennedy e la sua sepoltura nel cimitero di Arlington, in Virginia. Al regista cileno preme mostrare la dimensione, pubblica e privata, di una donna che in un terribile istante vide crollare tutto il suo mondo. Perse il marito nonché il padre dei suoi figli, il ruolo di First Lady e la Casa Bianca che tanto aveva amato, investendo tempo ed energie nell’arredarla e nel mostrarla al popolo americano attraverso il celebre White House Tour trasmesso dalla CBS nel 1962 (magistrale la ricostruzione dei filmati televisivi in b/n dell’epoca, sulla falsariga di quelli realizzati da Larraín in No – I giorni dell’arcobaleno). Di fronte al sogno andato in frantumi, alla favola spezzata per sempre (“Non ci sarà mai più un’altra Camelot” sussurra al giornalista di Life), la regina triste rimasta senza un reame trova la forza per rimanere lucida e combattiva, intuendo la centralità e il potere delle immagini, decisa a consacrare e consegnare il marito e di riflesso anche se stessa alla Storia americana, destinati entrambi a diventare due icone del XX secolo. Con la stessa determinazione tiene sotto controllo le domande del giornalista Theodore H. White (un misurato Billy Crudup), senza perdere mai il controllo di un’intervista destinata a fare epoca. La disperazione, la fragilità e il senso di smarrimento irrompono solo nel dialogo col prete, impersonato dal compianto John Hurt, qui in una delle sue ultime interpretazioni, poco prima di assistere alla sepoltura del marito.
Pablo Larraín dimostra ancora una volta di essere un autore coerente e rigoroso, evitando con destrezza e maturità le trappole e le insidie insite in un progetto di questo tipo, che in altre mani si sarebbe trasformato in un dramma agiografico, patinato e convenzionale da seppellire sotto un cumulo di premi Oscar. Considerato lo standard altissimo a cui ci ha piacevolmente abituato in questi ultimi anni, bisogna ammettere che Jackie non è tra i suoi lavori migliori (è meno urgente, vibrante e “necessario” di titoli come Post Mortem e El Club). In parte ostico e poco adatto al grande pubblico, a cui concede poco o nulla in termini di spettacolo e di puro intrattenimento, porta impresso il marchio di fabbrica e l’inconfondibile cifra stilistica di un cineasta capace di uscire (quasi) indenne e a testa alta dalla sua prima trasferta americana.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.