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Il biopic di Nolan sul padre della bomba atomica.

Chiude gli occhi, J. Robert Oppenheimer, nell’ultima ed enigmatica sequenza del film di Christopher Nolan. Forse per aprirli all’irrompere di un futuro sovrastato dalla spada di Damocle della guerra nucleare? O per chiudere il cerchio e rendere tangibile a se stesso la sua maledizione, uguale a quella del Prometeo evocato in apertura? Se il culmine di tre secoli di fisica, come sostiene il preveggente e preoccupato amico Isidor Rabi, è costruire un’arma di distruzione di massa, allora Oppenheimer è l’uomo che ha condannato il mondo, il suo virtuale distruttore, e per questo porta su di sé il peso del peccato e dell’orrore: un nuovo titano come colui che rubò il fuoco a Zeus, certamente, ma anche un novello Adamo e ancor più un nuovo Messia in negativo.

La laica e paradossale parabola cristologica dell’ebreo Oppenheimer, che da direttore scientifico del Progetto Manhattan – lavoro collettivo come pochi altri nella storia – portò la massima responsabilità della costruzione del più potente ordigno mai posseduto dall’umanità riluce nel tentativo di espiare le colpe del passato: nell’accorata richiesta al Padre della sua Nazione, il presidente Truman, di lavare il sangue che si sentiva sulle mani dopo Hiroshima e Nagasaki come nell’infruttuosa proposta del dopoguerra di un’autorità mondiale per l’energia atomica che scongiurasse l’escalation degli armamenti nucleari. Senza dimenticarsi del nome del primo test atomico ad Alamogordo, battezzato Trinity, e delle pilatesche audizioni provocate dal tradimento del “giuda” Lewis Strauss che, in piena Red Scare maccartista, cercavano di mettere in questione la lealtà del fisico, rovistando nei suoi equivoci contatti con individui iscritti al Partito Comunista o simpatizzanti della Russia.

Si tratta solo di una traccia, uno dei molti possibili, ricchissimi e potenzialmente inesauribili vettori di senso che in queste settimane si propongono nelle letture interpretative: e potremmo continuare a lungo e sotto differenti angolazioni a discutere del sontuoso apparato simbolico di Oppenheimer per esaltarne le virtù di grande spettacolo e di potente medium capace di intercettare le rinnovate angosce dei tempi.

Poi però c’è il film in sé, che non è solo questo, ed è giusto prendersi l’onere di qualche riflessione che non si fondi soltanto (o principalmente) intorno a discorsi sui massimi sistemi, come mi pare vada ormai un po’ (troppo) di moda nelle entusiaste e sovente autoreferenziali ribalte della critica contemporanea.

La corposa e densissima biografia di Kai Bird e Martin J. Shervin (American Prometheus, Premio Pulitzer nel 2006) dalla quale Nolan ha ricavato la sua opera richiedeva un’impresa poco meno che titanica: il materiale, sufficiente per imbastire come minimo una miniserie televisiva, necessitava di essere molto asciugato e reso snello e digeribile per uno spettacolo di tre ore.

Ma a guardare bene il risultato di questa ripulitura le grane non mancano, anche per effetto della caratteristica manipolazione dei piani temporali da parte di Nolan, probabilmente fiducioso oltremisura nella forza avvolgente del 70mm nel restituire la compiutezza del ritratto del protagonista.

Buona parte della giovinezza di Oppenheimer sembra per esempio precipitata e riassunta alla svelta nel controverso episodio della mela avvelenata lasciata sul tavolo a Cambridge in spregio al suo insegnante di laboratorio. Questa esclusione di un po’ tutto il resto, se si può capire narrativamente, rende arduo intuire il fascino che Robert emanava sulla sua cerchia di amicizie e conoscenze accademiche e su cui parecchio insistono i due biografi mettendo in chiaro le sue profonde letture e inclinazioni umanistiche, indispensabili a comprendere la sua multiforme, sfuggente personalità e il substrato dei dubbi da cui in seguito verrà assalito. Forse Nolan contava molto sull’interpretazione congrua e venata di molte sfumature di Cillian Murphy e gli premeva dipingere Oppenheimer nella forma di un individuo trascinato dagli eventi (la gara per l’atomica con la Germania che poteva contare su Heisenberg più che l’ambizione)? come un coeniano Uomo che non c’era (1)? Verosimile, ma questo sembrerebbe comunque in contrasto con la statura morale del grande scienziato che da ragazzo aveva studiato presso la Ethical Culture School (particolare essenziale, quest’ultimo, che a memoria è stato del tutto omesso nel film).

Sorvoliamo pure sulla trasformazione del generale Groves, l’autorità militare che scelse Oppenheimer come direttore di Los Alamos, che Matt Damon incarna come il tipico rappresentante onesto e un po’ ottuso dell’esercito, ma che nella realtà si comportava in modo autoritario ed era, senza eufemismi, “un bastardo”.

Più difficile tuttavia accettare che le figure femminili della vita di Robert, soprattutto l’amante comunista Jean Tatlock, pur interpretata con fervore appassionato da Florence Pugh, siano così sacrificate nell’economia dell’opera (la moglie Kitty ha comunque almeno una scena per mettere in luce il talento di Emily Blunt, quasi alla fine), sapendo quanta importanza la controparte femminile ebbe nella vita e nei dilemmi psicologici del padre della bomba atomica.

Si potrebbe anche spingersi oltre nelle note dolenti dicendo che il biopic, assunto di peso dal regista nella sua vischiosità di genere e non come semplice punto di appoggio (questo malgrado le derive di effetti speciali realizzati senza l’ausilio della CGI), non volendo rinunciare a personaggi e battute folgoranti finisca col rivestirsi di sembianze magmatiche e ostinatamente ridondanti (la verbosità è un limite non secondario di Oppenheimer, benché pesi meno allo spettatore che in altri lavori di Nolan). Ma non dubito che ci sarebbe chi vi leggerebbe, più che un pedaggio didascalico, un merito e un’intenzione consapevoli dell’autore, una maniera geniale di esprimere cioè il disagio del suo protagonista, travolto dall’impossibilità di tenere sotto controllo forze che lo sovrastavano. E torneremmo daccapo, senza sciogliere i nodi delle domande che si affollano nei nostri pensieri.

Oppenheimer era un fisico teorico, ma sapeva che la teoria non era sufficiente, come più volte sentiamo ripetere nel film. Nel voler lasciare una traccia duratura del suo passaggio sulla Terra sotto forma di un aiuto determinante per vincere la guerra contro la barbarie nazista, egli ha involontariamente calato sulla posterità la più spaventosa delle minacce, lo spettro dell’annientamento. Questo desolato contrappasso della sua hybris suona come un’immensa beffa per tutto il genere umano, come la punizione non per un azzardo scientifico troppo grande, ma per l’incapacità di gestirne gli effetti, come una reazione a catena non prevista né tantomeno calcolata simile a quelle che si evocano nel film. Come una falla nella nostra conoscenza e nella nostra pretesa di sapere e di capire tutto, a partire dalla fisica dell’universo. Forse, come dice Niels Bohr nel suo primo incontro a Cambridge con il promettente dottore, non è neppure così decisivo conoscere la matematica: basta seguirne la musica, lo spartito.

È per questo che la sorte di Oppenheimer, così lontano per altri versi da noi, ci tocca tanto da vicino, in qualità di uomini che non sanno più sentire (perché ne sono invasi) il sentimento della possibile fine di tutto. Ed è forse per questo che Cillian Murphy, dopo aver scorto insieme a noi i bagliori di una nuova, terribile era per l’umanità all’alba di un mattino del Nuovo Mexico, chiude finalmente gli occhi: per riaprirli con la speranza che questa non sia la fine e che un’altra visione, quella della pace, sia ancora possibile.

(1) Come ha sostenuto Roberto Manassero nella sua recensione su Cineforum.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.