Noi, insieme.
Alla bella età di 87 anni e giunto a quello che sarebbe (ipse dixit) il suo ultimo film, Ken Loach riesce nell’intento di evitare alcune delle trappole che hanno reso il suo cinema più recente meno incisivo di quello che avrebbe potuto essere. Parlando di Sorry We Missed You (2019) su questo sito, scrivevo che il film cadeva in una certa mancanza di lucidità e soffriva di un eccesso di semplificazione nella scrittura, diventando più piccolo della vita a dispetto del suo lucido e asciutto afflato umanista. E questo benché si dovesse riconoscere un’attenzione maggiore di altre volte alla costruzione delle inquadrature e dei rapporti tra i personaggi: la banalizzazione delle storture del sistema non giovava alla causa difesa da Loach.
Con questo ultimo The Old Oak, viceversa, il regista di Family Life e Terra e Libertà pare concentrarsi meno sulle barricate di classe o sul vigore della protesta antisistema per affinare l’empatia verso i suoi protagonisti. Il motto che riecheggia durante e dopo la proiezione anche nella testa dello spettatore, facile quanto disarmante, è we eat together, we stick together, se mangiamo insieme ci uniamo. Le parole chiave sono we, noi, e together, insieme. Più semplice di così: il pur disilluso TJ trova nella speranza della giovane rifugiata siriana Yara un motivo di agire attivando una mensa nel suo locale, proprio lui arrivato a un passo da un gesto estremo e che perde, in una delle scene che più inducono il pubblico alle lacrime, la ragione per cui aveva desistito. Il riconoscimento della possibilità dell’altro è il motore della speranza di un uomo: il noi che rompe l’isolamento e il vittimismo. The Old Oak, il pub di TJ, è il luogo simbolo, quello dove si ritrova e riconosce una parte della comunità, quella che cerca di ricomporsi, se non attorno a valori e obiettivi comuni, nella pretesa di essere sempre uguale a se stessa, arroccandosi coesa intorno a un’identità che non deve essere messa in gioco dall’arrivo di stranieri. Un noi che per quanto comodo, de facto finisce però per escludere l’insieme, decretando il conflitto, il malessere, ben compreso dalla regia che coglie in questa chiusura la radice di una guerra tra poveri e ancor più poveri. Solo che questa volta Loach non sta troppo a incolpare qualcuno, non indebolisce la sua disamina e non si dilunga con riferimenti politici troppo espliciti e manichei, anche quando ne avrebbe l’occasione o avrebbe persino senso farlo (la zona nei pressi di Durham in cui è girato The Old Oak ha assistito alla chiusura delle miniere e alla progressiva decadenza del luogo con scarso interessamento della politica).
Non sarà un lavoro perfetto, The Old Oak, ma ha dalla sua parte un incipit lucido, per esempio (in sottrazione, non vediamo tutto dell’arrivo dei profughi, cogliamo però l’ostilità dei locali). E la coscienza che si finisce qui, alla lotta tra infelici, se non c’è una direzione comune. E forse è questo che riscalda il cuore, in questo film. Non che lo dica troppo esplicitamente, ma si coglie tra le righe, per un vero messaggio politico, forse anche un testamento, senza troppe sbavature inutili, per una volta.
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