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TRAIN TO BUSAN

TRAIN TO BUSAN

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Il contagio corre sui binari.

Dopo Snowpiercer di Bong Joon-ho troviamo ancora un treno al centro dell’azione d’una pellicola sudcoreana. Si tratta di Train to Busan di Yeon Sang-ho, autore che dopo due film d’animazione violenti e nerissimi come The King of Pigs e The Fake (ancora tristemente inediti in Italia) debutta in modo clamoroso nel live action confermando tutto il talento di cui aveva dato prova nei suoi lavori precedenti. Qui decide di cimentarsi con un vero e proprio film di genere, un horror sugli zombi ambientato principalmente su un treno diretto a Busan in cui si scatena una spaventosa epidemia che trasforma le persone in esseri mostruosi bramosi di carne umana. Due ore di pura tensione con svariate scene d’azione filmate in modo magistrale dal regista, che dimostra un’incredibile dimestichezza coi meccanismi del genere di riferimento. Yeon Sang-ho si mostra a suo agio anche nella direzione degli interpreti, nonostante sia la prima volta in cui si trova a interagire con attori in carne ed ossa. Saggiamente decide di ricorrere il meno possibile alla computer grafica, affidandosi soprattutto al lavoro di make-up per rendere in modo realistico ed efficace le orde di zombi che popolano il suo film. Il regista coreano si discosta dalla tradizione romeriana, preferendo al classico non morto lento e lamentoso delle creature velocissime, fameliche e rabbiose, in linea con quanto visto sul grande schermo negli ultimi anni, dal remake di L’alba dei morti viventi di Zack Snyder fino al blockbuster horror World War Z interpretato da Brad Pitt. Così come nel già citato Snowpiercer di Bong Joon-ho anche in Train to Busan il treno ricopre un ruolo di primo piano, accrescendo con la sua innata componente asfittica e claustrofobica il senso d’angoscia e di pericolo imminente. Bong, ispirandosi alla graphic novel francese Le Transperceneige, utilizzava il treno come una chiara e potente allegoria della nostra società con i vagoni a riprodurre le suddivisioni e le diseguaglianze sociali, a differenza di Yeon che se ne serve principalmente per imprimere un ritmo teso e serrato al suo film, con un uso funzionale e intelligente degli spazi chiusi e con continui movimenti in orizzontale della macchina da presa. Le analogie non finiscono certo qui, entrambi i film condividono uno scenario apocalittico o post-apocalittico ed una visione decisamente cupa e pessimistica della società e dell’animo umano. Emblematica in tal senso in Train to Busan la sequenza ambientata in un vagone dove un gruppo di non infetti si rifiuta di far entrare alcune persone inseguite da un’orda di contagiati, temendo che tra loro vi possa essere qualcuno già contaminato. L’intenso e drammatico sviluppo della scena, se possibile ancor più spietato e agghiacciante rispetto alle premesse, dimostra quanto la nostra società sia totalmente incapace di provare empatia, dominata com’è dall’egoismo e dall’egocentrismo, insensibile e di fatto già mostruosa, ben prima dello scoppio di qualsivoglia epidemia. Inoltre entrambi i titoli nel passaggio da un vagone ad un altro, da un livello (da affrontare e superare) ad un altro si rifanno ad uno scenario videoludico.
Inserito nelle Midnight Screening di Cannes 2016 e nella sezione Tutti ne parlano della Festa del Cinema di Roma, il film quest’estate ha registrato un incredibile successo di pubblico in patria ed è stato invitato a diversi festival internazionali. Va sottolineato che Yeon Sang-ho lo ha realizzato in contemporanea con Seoul Station, prequel animato uscito a distanza di un mese nei cinema coreani, in cui si descrive lo scoppio della terribile epidemia. Con questa doppia operazione l’autore coreano sembra voler rassicurare i suoi fan, ribadendo ulteriormente che il suo campo d’azione principale resta legato al cinema d’animazione dove riesce a essere ancor più respingente e disturbante nel portare avanti una poetica estrema e radicale, lontana da facili compromessi e vie di fuga. Paradossalmente, se nei suoi primi due lunghi – rigorosi e per nulla conciliatori – non s’intravedeva alcuna speranza, qui, nell’abbracciare il genere horror, sul finale si riesce a scorgere un esile spiraglio di luce, dovuto anche alla trasformazione del protagonista che all’inizio è solo un manager rampante che antepone la carriera alla sua famiglia per poi aprirsi via via agli altri fino a sacrificarsi in prima persona grazie alla piccola figlia afflitta e contrariata dall’egoismo dimostrato dal padre durante i tragici accadimenti.
La Tucker Film, in collaborazione col Far East Film Festival di Udine, ha acquistato il film per il mercato italiano e dovrebbe farlo uscire al cinema la prossima primavera dopo l’anteprima nazionale capitolina. Scelta coraggiosa e oculata perché, se ben lanciato e proposto, il nuovo lavoro del talentuoso Yeon Sang-ho – regista di cui sentiremo ancora parlare nei prossimi anni – potrebbe avere un suo pubblico di riferimento visto l’indiscutibile appeal esercitato dal filone dei film (e dei comics e delle serie come dimostra il successo di The Walking Dead) sui morti viventi.

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Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.