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La ridefinizione estetica di Agatha Christie.

Quando Kenneth Branagh ha iniziato, nel 2017, a trasporre per il cinema i romanzi di Agatha Christie, il pubblico è rimasto spiazzato da questo apparente cambio di campo di un autore che, ricordiamo, ha iniziato a brillare come regista con Shakespeare, passando poi a Mary Shelley e Mozart tra gli altri. Frutto di un equivoco, o di un fraintendimento: perché Branagh non ha mai smesso di indagare i rapporti tra letteratura e cinema, studiandone i punti di contatto e soprattutto compiendo poi un percorso forse imprevisto ma proprio per questo particolarmente interessante. Ovvero che passa dal Bardo e dalla letteratura “alta” a Perrault e ai Grimm (con Cenerentola) e infine alla Christie, quindi un calderone mainstream ed erroneamente visto come più semplice.

Gli eroi popolari – e questo è Hercule Poirot, alla fine – sono più difficili da trattare perché fanno parte del patrimonio di tutti, e tutti pensano di “possederli” e conoscerli: da fine cineasta qual è (e spesso ce ne dimentichiamo), allora Branagh ha usato Assassinio sull’Orient Express e Assassinio Sul Nilo per prendere le misure al suo protagonista e impadronirsi della sintassi della scrittrice di Torquay, così da maneggiarli con più padronanza. È per questo che con le battute finali di Death On the Nile – uscito nel 2022 causa Covid, malgrado fosse pronto fin dal 2019 – ha compiuto un gesto che è sembrato sacrilego ai cultori dell’autrice di gialli più famosa e letta al mondo: costruire una origin story sui baffi dell’investigatore belga.

Al di là dei risultati, obiettivi o meno, Branagh ama Hercule Poirot al punto di volerlo far suo, colmandone alcuni buchi biografici: e se questo può sembrare un tradimento, probabilmente dall’altra parte può essere visto solo come una creazione a latere, decostruzione e ricostruzione, personale reinterpretazione. Il Poirot di Branagh è solo apparentemente – e neanche così tanto – simile a quello della Christie, si muovono solo negli stessi contesti: operazione che con Assassinio a Venezia subisce un’ulteriore evoluzione. Perché gli ambienti nei quali si muove il protagonista sono traslati da Londra a Venezia, e allora rimane solo l’intreccio, quel grumo giallo che dissemina pezzi qua e là per essere raccolti alla fine in quello stile che è proprio dell’autrice originaria.

A questo punto va aperta una necessaria premessa.

Agatha Christie ha cambiato in maniera copernicana il giallo letterario, ma inconsapevolmente anche quello cinematografico. Perché è stata lei a creare il concetto di suspense moderno, le coordinate da seguire per il mistero, quell’intreccio quotidiano di investigazione basato sulla dicotomia fondamentale dappertutto di verità e bugia. E in tutto questo, ha inserito (a modo suo, e per la sua epoca, parliamo dei primi anni del ‘900) una critica costante e anche apertamente politica alla società per bocca proprio di Poirot: avendo conseguentemente un impatto radicale sulla storia della letteratura.

Branagh, da fine letterato qual è, ed essendo uno dei più grandi della storia del teatro e del cinema britannici, ha allora continuato – verrebbe da dire silenziosamente e anche in maniera relativamente umile – nel suo percorso personale di rinnovamento del concetto di trasposizione. Quindi Shakespeare, Mozart, Grimm, Perrault, Disney, e adesso Christie. Senza mai perdere di vista la messa in scena, che via via si è forse fatta un po’ troppo patinata (ma calza perfettamente alla sua idea di immagine), né la fedeltà semantica alla narrazione e ai suoi artefici. Assassinio a Venezia rappresenta allora un ponte perfetto tra passato e futuro, in quanto rappresentazione plastica della narrazione che subisce una ridefinizione estetica e non solo. Non tanto perché mischia horror e thriller al giallo classico, ma quanto perché sa inserire i topoi classici di Agatha Christie in una Venezia mai così spettacolare e oscura, hollywoodiana quasi nella sua perfezione iperrealistica.

voto_3

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.