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I supereroi declinati all black.

Continua la rilettura del mito hollywoodiano attraverso la declinazione dell’epos della Marvel, due leggende che si intersecano e che si sono da sempre rincorse, trovando oggi una sintesi perfetta con i Marvel Studios di Kevin Feige. D’altronde era naturale: sia Hollywood che la casa editrice con gli eroi creati da Stan Lee hanno da sempre avuto lo stesso oggetto del racconto, quella commedia umana che copre ed è coperta da ogni genere narrativo. Forse per questo, negli ormai dieci anni di produzioni – con ben 18 film e diversi serial tv che hanno creato quell’universo condiviso ormai collaudato -, la Marvel ha saputo dare il meglio con i personaggi di seconda fascia, quelli meno caratterizzati o forse meno riconoscibili e radicati nell’immaginario, e che quindi meglio si presta(va)no ad una rilettura: abbiamo allora visto la space opera con i Guardiani Della Galassia, l’heist movie con Ant-Man, la sword & sorcery con Doctor Strange. E quando si rispolvera la blaxploitation non può che arrivare Black Panther, il primo supereroe di colore di rilievo creato ovviamente da Stan Lee e Jack Kirby nel 1966 su Fantastic Four # 52 (vol. 1), lo stesso anno in cui Huey Percy Newton e Bobby Seale fondano la celebre organizzazione rivoluzionaria delle Pantere Nere: in un momento storico, sociale e culturale quanto mai ideale, con il lascito di Barack Obama sempre più lontano ricordo e la presidenza Trump  sempre più presente nella produzione audiovisiva mentre fomenta la discriminazione razziale, collusa con l’ascesa di movimenti di suprematisti bianchi e frange fascistoidi insite nelle forze dell’ordine.

Come sempre, il cinema riflette il cambiamento: Hollywood, mai come oggi forse portavoce di un risveglio delle coscienze urgente e necessario, rilascia opere come Get Out e Moonlight, un horror il primo e un dramma LGBT il secondo. E Black Panther, appunto: che non è quindi possibile leggere “solo” come un cinecomic, visto che ormai “solo” cinecomics non sono più. Giustamente allineato, il film di Coogler (già autore del bel Creed) acquisisce così un valore politico, umano e sociale aggiunto, che si somma ad un impianto visionario neanche da poco.

Black Panther è la storia di T’Challa, re del Wakanda, nazione (immaginaria) africana ricchissima e supersviluppata grazie al vibranio, minerale (immaginario), di cui il suolo wakandiano è colmo: dopo la sua apparizione in Captain America Civil War, episodio nel quale succedeva al padre T’Chaka morto sotto un attacco terroristico alle Nazioni Unite, nel suo film da solo deve prima vedersela contro Klaw, intenzionato a rubare proprio del vibranio, poi contro la sua stessa famiglia in un complicato intrigo dinastico.

Black Panther è l’incarnazione di un’utopia: stranianti intermezzi onirici puntellano una trama che si avvita attorno ad un nucleo antropologico e sciamanico accattivante, mentre la storia di re T’Chaka, guerriero pacifista, avenger suo malgrado, si innesta e nasce in e da episodi di militanza politica anni sessanta (le Pantere Nere, appunto).

Se del qualunquismo di tanto cinema americano c’è poco (giusto l’inevitabile prevedibilità di certe situazioni), in Black Panther di svogliato o meccanico non c’è nulla: action avvincente e perfettamente oliato, dramma coraggioso, dà il giusto spazio all’introspezione ma lascia largo spazio a quei sottotesti politici che oggi in Marvel la fanno da padrone (basti pensare proprio al serial di BP scritto da Ta-Nehisi Coates, ma anche ai Captain America e Secret Empire di Nick Spencer). E inoltre, Coogler ci mette la zampa di un piccolo autore, come lascia ben vedere il piano sequenza nel casinò e la struttura dell’inseguimento in Corea.

Black Panther rappresenta quindi la vittoria definitiva della scommessa dei Marvel Studios, coraggiosa e rivoluzionaria (creare un fandom e, cosa più importante, un immaginario fidelizzato non più solo in tv ma anche su grande schermo): ancora più importante se si riflette per un momento sulla componente all black dell’impianto produttivo, in un momento storico così delicato.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.