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FALSE IDENTITÀ E GENDER A HOLLYWOOD

FALSE IDENTITÀ E GENDER A HOLLYWOOD

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È la complessità. Sono le zone grigie morali ad essere interessanti, no?

I film prodotti negli ultimi mesi da Hollywood sembrano riflettere sull’impossibilità dell’uomo di dominare un mondo caotico a partire dalle sue scelte. Da un lato Oppenheimer, in cui un workaholic non riesce a rendersi conto delle conseguenze delle proprie scoperte, dall’altro The Killer, in cui un nuovo Patrick Bateman pianifica tutto in maniera ossessiva per poi fallire davanti all’insorgere dell’ennesimo problema. Entrambi creano uno scarto tra la volontà del protagonista, imperscrutabile e ossessivamente interessato ad un’unica cosa (il lavoro), e la conseguenza effettiva delle loro azioni. Napoleon sembra volersi inserire in questa linea interpretativa, dato che il personaggio principale non ha alcuno scavo psicologico come anche le figure di contorno (la moglie Giuseppina ritratta come una ninfomane sofferente e nient’altro), se non un’accennata mancanza di rapporto materno (come sembra suggerirci la scena iniziale), e i suoi unici interessi sono l’acquisizione della potenza, sia politica che paterna. Se Nolan e Fincher hanno ben chiaro cosa narrare, selezionando con cura il materiale (non discutiamo della riuscita), il grosso problema del film di Ridley Scott è il suo essere perennemente fuori fuoco: un bignamino sul personaggio storico più rappresentato nella storia del cinema, di cui vediamo solo gli highlights, senza una personale interpretazione che possa rendere il film qualcos’altro da una serie di scene che sembrano fungere come appunti ad un film che si farà, perennemente indeciso se destreggiarsi tra il ritratto di un imperatore carismatico (che tale non risulta perché drammaturgicamente poco ci viene dato, e anche il solitamente bravo Joaquim Phoenix recita a metà tra lo spaesato e l’automatismo) o quello intimo, di un rapporto con finalità divergenti e quindi inconciliabili. Chi vuole vedrà se le 4 ore del director’s cut riempiranno i buchi, per ora tutto sembra gestito all’insegna del “salviamo il salvabile”, tra dettagli splatter di dubbio gusto (il cavallo alla fine della prima battaglia) e maestose scene di battaglie per giustificare i milioni di dollari spesi. Unico elemento di fascino extra-testuale, sono le analisi autorialiste che vorrebbero leggere l’ultimo Scott come un esegeta del doppio e del falso: The Last Duel come riflessione sulla fallacia della verità molteplice; House of Gucci come costante trompe l’oeil nell’ostentare il falso, a partire dalle location che non tornano e dalle interpretazioni sopra le righe; e Napoleon come un ritratto su Napoleone in quanto nome e firma e quindi visione “altra” dalla verità storica. Forse. Per quanto romantico e affiatato sia questo macmahonismo verso un nome che in passato ha dato ben altri risultati, Napoleon, a conti fatti, ha una narrazione classica che non distanzia lo spettatore da un’illustrazione acritica di fatti storici rappresentati senza alcun punto di vista.

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Scott rimane ancorato ad un’estetica in fondo anonima, ma questo avviene in un periodo in cui Hollywood sta cercando di appropriarsi di linguaggi esterni al cinema per riprendersi un pubblico il cui consumo di immagini avviene solo occasionalmente tramite i film, dato che i content della quotidianità sono altri. Se sempre più cinefumetti hanno un montaggio da reel, The Killer meriterebbe un discorso a parte per come frammenta il découpage per tenere desta l’attenzione dei viewers, e Killers of the Flower Moon è stato imparentato da molti ai podcast true crime, May December di Todd Haynes sembra percorrere coscientemente questa strada (anti)estetica per deridere un reportage scandalistico da televisione pomeridiana, conscio della bassezza del materiale narrato. Ma nei piani sequenza (si veda la scena del film in cui Elizabeth [Nathalie Portman] e Gracie [Julianne Moore] dialogano mentre la figlia di quest’ultima [Elizabeth Yu] si prova un vestito) è viva la lezione dei vuoti altmaniani e i chiaroscuri negli ambienti chiusi dimostrano un sapiente uso della luce nel risottolineare la messa in scena del vero e del falso, se si presta attenzione a come vengono illuminati gli attori. Mentre i film precedenti di Haynes erano delle gabbie stilistiche ben congegnate, May December sembra, quindi, un’auto-negazione distruttiva: pieni orchestrali di dubbio gusto spalmati su immagini placide a metà tra un telefilm per casalinghe e un porno statunitense. Tanto che le brevi inquadrature di negozi abbandonati a sé e della piscina in costruzione da parte di aliens sembrano bucare la narrazione. Questo poi da un regista che ha sempre seguito una linea tematica in cui si intrecciano la scissione dell’identità e la sua percezione, con uno scavo critico all’interno del passato recente, che si tratti di rockstar raccontate con frammenti (I’m not there) sia stilistici che biografici, con una intuizione quasi a-gender (Bob Dylan interpretato da un’attrice) oppure donne che discendono nella follia a partire dall’immagine che gli altri hanno di loro (Safe, Lontano dal paradiso). Confesso la delusione di Carol (a differenza dell’ottimo documentario sui Velvet Underground) (1), in cui uno stile laccato sostituiva l’acredine della scrittura di Patricia Highsmith. Invece May December sembra raccontato adoperando la cifra stilistica della grande scrittrice: il ritmo da thriller non serve un plot mystery, ma la placida rievocazione di un trauma con conseguente crisi.

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Sui social, a partire dal rapporto tra Elizabeth e Gracie, sono già sorti parallelismi con la relazione vampiresca al centro del classico di Bergman Persona. Eppure l’estetica di cui si parlava prima può sorprendere più del triangolo psicologico. Piuttosto, esso è aggiornato alla sensibilità attuale e meno schematico di quel che sembra. Joe (Charles Melton), nel suo essersi dato a una sola donna è un coacervo di repressioni (e l’attore è bravissimo ad esprimerle) che lo bloccano in una sorta di adolescenza reiterata: ha dubbi su quanto sia giusto avere una cotta, non sapremo mai con chi messaggia, in una conversazione che tratta tranquillamente di ovuli e di catturare farfalle (nella drammaturgia anche metaforiche) ed esprime le sue vere ansie solo quando prova (in una sequenza memorabile) l’erba per la prima volta, proprio come e con la curiosità di un adolescente. È solo la scoperta del sesso, al di fuori di un ambiente coniugale tossico, che lo porterà lentamente (forse) a sbloccarsi. Vittima perfetta, quindi, di una grande manipolatrice come Gracie, tipo delineato con grande cura nei suoi slittamenti e nelle sue finte colpevolizzazioni (si vedano gli ultimi dialoghi, sia con Joe che con Elizabeth) verso sé e l’altro. Haynes non ne spiega l’origine, come in tante narrazioni da gossip, da dove nasca cioè questo suo bisogno di accettazione che si traduce nel trattare l’altro senza adoperare alcuna misura “media”, solo demolendolo o elogiandolo. E gli altri, tranne Joe, lo sanno e si regolano di conseguenza. (2)

La novità di tutto questo risiede nell’aver sempre pensato che la Diva, l’Altro a noi superiore, sia abituata ad interpretare il ruolo del “cattivo”. Ma la manipolazione di Elizabeth non ha elementi di tossicità: da attrice (Natalie Portman) che impersona un’altra attrice (il personaggio di May December), tranne che in pochi momenti di consapevolezza, recita in continuazione. Quando interagisce nelle occasioni più disparate (da quelle “mondane” all’intimità) sfoggia un tono cordiale e allo stesso tempo neutro, tipico di chi venisse diretto in una pubblicità di cosmetici. Del resto, nel film sta preparando un lavoro, il motivo di questo approccio finto e asettico sta in questo sottotesto che durante il piacere della visione può sfuggirci. Assieme ai due sceneggiatori, a Haynes va sicuramente il merito di aver eliminato qualsiasi superfluo rendendo il film accessibile a tutti (mentre scrivo, ha medie lusinghiere su molti database): oltre alla donna con cui messaggia, non sapremo mai l’evolversi di questa relazione o se il fucile di Grace sparerà, oppure se l’interesse di Elizabeth nasconda sinceramente qualcosa che vada oltre un semplice lavoro. E nelle scene finali si capisce che il film che girerà non necessitava del metodo immersivo, data l’estetica da straight to video.

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Messi a confronto con le figurine sbozzate di Napoleon, in cui la vertigine vero/falso è limitata a una firma sul foglio, i personaggi di Haynes e la sua estetica del trauma producono un film di grande originalità, mentre Scott gira un polpettone che avrebbe entusiasmato solo qualche spettatore semplice nel ‘56. L’erotismo ad esempio: se accettiamo Napoleone che scopava volutamente male, l’inquadratura di Giuseppina che si propone al suo consorte aprendo le gambe, mi sembra più il commento da parte di un provinciale su quanto siano strani questi francesi e fa il paio in cattivo gusto col torace del cavallo squarciato. Invece in May December l’erotismo è dappertutto, spesso represso, altre volte sul punto di esplodere. E non è la scena di sesso a costituire l’apice (è volutamente breve e mal illuminata), ma i monologhi di Elizabeth: quello sul girare le scene di sesso, davanti ad adolescenti esterrefatti, e l’ultimo che finisce con un pianto liberatorio. Quanto sia sincera non lo sappiamo, visto che l’attrice non sembra smettere mai di recitare, ma è un grande vantaggio per lo spettatore: se Napoleon è autoconclusivo e di superficie, May December si appella al nostro inconscio lasciandolo libero tra le maglie narrative di una storia inutile e inconclusa.

(1) Eventualmente, la mia recensione al seguente link: https://ilbelcinema.com/the-velvet-underground/

(2) Le finte richieste di torte via posta, mi hanno ricordato le lettere di ammiratori inesistenti spedite dal maggiordomo (Eric von Stroheim) a Norma Desmond (Gloria Swanson) nel classico Viale del Tramonto. Da amante del melò anni ’50, è un riferimento che Haynes avrebbe potuto tenere in conto.

Napoleon: voto_2

May December: voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.