Eccedere la misura.
Dopo i grandi plausi riservati a Roubaix, una luce e il rispetto un po’ artificioso tributato alla riduzione di Inganno di Philip Roth, stavolta Arnaud Desplechin ha a quanto sembra deluso la critica che si è in generale poco presa a cuore questo suo ultimo Fratello e Sorella: l’uscita agostana nelle sale italiane (e quindi l’irrilevanza per il pubblico, d’essai o meno) ne sarebbe pertanto il riflesso. Forse nel declassamento del nuovo film ha inciso l’aspettativa di un ulteriore, raffinato e prezioso trattato familiare, come ai tempi del magistrale Racconto di Natale. Mentre quello che ci si trova invece davanti, almeno in superficie, suona come un borioso e appesantito dramma farcito solo di odi e isterismi a volte persino involontariamente comici tra due fratelli, Alice e Louis, entrambi artisti provenienti da una famiglia disfunzionale: quasi un compendio di cattiva letteratura e birignao da palcoscenico, di vezzi e di clichés del cinema sentimental-intellettuale più indigesto, come se fossimo finiti in qualcuno dei film più recenti e meno riusciti di Xavier Dolan.
A traguardare il resto della sua filmografia da questo punto di arrivo, però, il cinema di Desplechin continua a sfuggire ed eccedere la misura ed è molto dubbio che Fratello e Sorella rappresenti uno scivolone nella banalità o addirittura una caduta di gusto bella e buona. Gli echi interni, lo si diceva già per Tromperie e I fantasmi d’Ismaël, continuano a crescere e non si accumulano per semplice presa di posizione d’autore che tale vuole essere e venire considerato.
Al contrario, Fratello e sorella cuoce a puntino l’intersezione del piano teatrale (con la crudeltà che caratterizza il palcoscenico nel suo disvelamento della nudità dell’essere umano e delle sue emozioni e motivazioni profonde, non a caso Alice recita nella riduzione dei Morti di Joyce), del tratto più romanzesco della letteratura (con gli sfoghi sferzanti e sarcastici di Louis, segnato dalla tragedia di chi ha perso un figlio, ma anche dalle sue letture del rapporto irrisolto con un genitore giudicante e oppressivo) e della gratuità della vita nella quale l’amore e la gelosia, il risentimento e l’odio, si manifestano impetuosi e meschini allo stesso tempo, salendo dal profondo senza preavviso e diventando persino ridicoli nella loro improvvisazione, come nello scambio tra Louis e Alice dopo il primo successo professionale dell’uomo. Altro che film non riuscito o slabbrato o pieno di autocompiacimento: il regista francese sa unire come forse nessuno questi tre ambiti nella pervasività del cinema che, nella sua ottica, tutti sa comprenderli.
E questo senza la presunzione di saper tutto, al netto della tentazione di ergersi a entomologo cipiglioso e radicale alla Haneke o a osservatore impassibile come Lanthimos. Ci sono zone grigie (incesto? chissà) e trattamenti accidentati, figure sbozzate e non finite (il figlio di Alice, la sua ammiratrice spiantata), coincidenze impossibili eppure logiche. E non c’è neppure la pretesa dell’esemplarità: quante storie simili potrebbero ritrovarsi ovunque, forse solo meno cariche di paradosso.
A Desplechin continuano a importare tantissimo gli uomini, ma non se ne fa forzatamente cantore; ama l’esattezza e l’acutezza, ma non le pone davanti come sola unità di misura. Sa che esistono mille variabili: e se non arriva a dire come Gide di odiare le famiglie, che sarebbe ancora un assolutismo, nondimeno ci suggerisce qualche direzione significativa verso la quale volgere il capo.
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