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LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO

LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO

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Le prigioni invisibili.

A inizio film Eurídice e Guida vagano libere nella natura sensuale e lussureggiante: i rumori, gli animali, l’acqua che scorre; tutto testimonia le loro possibilità di vivere una vita a contatto con i loro desideri e istinti. Ma si perdono subito e sebbene si cerchino, si chiamino, si invochino a gran voce, non si trovano: dopo la partenza di Guida dalla casa natale non si riuniranno più.

Il simbolismo del film di Karim Aïnouz è in fondo di facile presa emotiva, ma il regista non teme certo di essere letterale: sa di raccontare una storia di portata universale. Eurídice e Guida sono separate da qualcosa che non sanno o non possono controllare e che prese individualmente non potranno neppure combattere veramente. Soverchiate da un maschile onnipresente che impedisce loro in ogni modo di dare sfogo alle rispettive individualità, tentano di ribellarsi ma finiscono col soccombere e vivere nella frustrazione della distanza. La vicenda del film è tutta nel desiderio di ritrovarsi espresso dalle lettere di Guida – la prova della loro esistenza l’avremo solo nel finale ambientato ai giorni nostri – e nell’esplicitazione, a volte metaforica e allusiva e a volte diretta e marchiana, dei mezzi con cui sono legate a un destino senza gioia. Un film fatto di sospiri inauditi, di censure emotive e culturali, di ribrezzo esibito per il potere brutale e sordido che opprime le donne e ne schiaccia la personalità. E soprattutto, un film costellato di prigioni invisibili. Quando Guida si lascia sedurre dal bel marinaio greco che in seguito la abbandonerà incinta, è appunto prigioniera di un incantesimo: la sfocatura, su cui Aïnouz aveva già lavorato in abbondanza nell’interessante Madame Satã – film del 2002 inedito in Italia come tutta l’opera del regista – ritorna strategicamente in alcuni momenti del film, a sottolineare la visione non chiara delle protagoniste. Nella casa borghese in cui Eurídice va a vivere dopo il matrimonio (1), la giovane e il marito sono spesso inquadrati riflessi in uno specchio. Il raddoppiamento dell’effigie è nella sua evidenza uno dei segni dell’onnipresenza del compagno e tiranno (2) che non di rado le impedisce anche di esercitarsi serenamente al pianoforte per soddisfare la sua brama di possesso fisico; la pervasività del potere del maschio e padrone della vita familiare è sottolineata anche dalla violazione da parte del ginecologo della riservatezza di Eurídice, quando anticipa al marito la sua gravidanza. La reclusione delle due sorelle protagoniste è messa in rilievo anche attraverso elementi ulteriori, per esempio l’opposizione del tipo fisico: Eurídice è alta e secca e idealmente richiama di più l’idea di una donna chiamata al lavoro artistico, ma è incatenata ai suoi doveri di moglie e madre; al contrario Guida, che è brevilinea e formosa, sembra più propensa ai ruoli ricoperti dalla sorella, ma dopo la sua disavventura il padre la condanna a una vita piena di stenti e priva di amore (da allora i suoi rapporti con gli uomini sono sempre all’insegna dell’imbarazzo, dello squallore e della disillusione).

La regia, come è palese, lavora spesso sull’analogia e sul montaggio alternato, non perdendo l’occasione di additare i destini paralleli delle sorelle e la beffa che le tiene avviluppate in un cumulo di bugie, malintesi, convenzioni e sudditanze. La splendida sequenza del ristorante in cui Guida ed Eurídice solo per un soffio non si incontrano è anch’essa introdotta da soprusi maschili: il cameriere non vuole fare accomodare Guida e la sua amica Filomena nonostante i molti tavoli liberi, mentre persino il figlioletto di Guida va a fare pipì nel bagno delle donne, pur rimbrottato dalla figlia di Eurídice (3); quando le donne forzano la situazione, l’acquario che si frappone tra Guida e la visione di suo padre seduto al proprio tavolo, con tutto lo sfarfallio delle pinne dei pesci, è ancora un richiamo ad una visuale poco chiara degli eventi e della situazione da parte della ragazza.

In questo quadro fosco e pieno di infelicità, forse era inevitabile che la sceneggiatura introducesse un elemento di speranza mostrandoci Eurídice oggi, ormai anziana (4) e attorniata dai figli, che dopo la sepoltura del marito rinviene le lettere della sorella mai più rivista: ma se gli ultimi 15 minuti appaiono più convenzionali del resto, basta il campo-controcampo finale (ipotetico) a ribadire il duro monito del film: la tragedia è nella separazione di chi deve stare unito non potendo vivere secondo desideri e inclinazioni.

 

(1) La casa appare come un carcere anche nella breve scena dopo l’avvenuta deflorazione di Eurídice. La donna passeggia con aria frastornata nell’ampio giardino, fermandosi ai bordi della piscina. Segno palese di una prigionia in qualche modo (assai poco) dorata, opposta e speculare a quella di Guida confinata nelle favelas di Rio de Janeiro.

(2) Gregorio Duvivier, nei panni di Antenor, il consorte di Eurídice, offre una prestazione molto convincente: invasivo, insinuante, disturbante, supplice, mellifluo, l’uomo ricorre a tutti i trucchi e i ricatti psicologici e morali possibili pur di castrare le ambizioni della moglie di diventare una pianista.

(3) Al ritorno dall’ospedale dopo il parto, una vicina di casa di Guida si informa dalla puerpera del sesso del nuovo nato e prorompe in un’esclamazione che la dice tutta sul sentimento di essere donna nel Brasile degli anni Cinquanta.

(4) Impersonata da Fernanda Montenegro, ben nota anche al pubblico italiano per il ruolo della protagonista in Central do Brasil (1998)

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.