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Magari foto2

La difficoltà della crescita nell’esordio di Ginevra Elkann.

Per una pura coincidenza, due dei film italiani usciti in streaming durante questa quarantena hanno in comune la prospettiva da cui decidono di dipanare la loro narrazione: come in Favolacce, in Magari il punto di vista è quello di bambini giunti alle soglie dell’età puberale. Il tono è qui completamente diverso da quello dell’opera dei fratelli D’Innocenzo, c’è più empatia e coinvolgimento (come segnala la sporadica voce off di Alma), diverso è il contesto sociale e l’intera architettura degli eventi è calata in una cornice esclusivamente infantile. Risulta un fruttuoso azzardo quello di aver scelto un direttore della fotografia come Vladan Radovic, di solito noto per le sue tonalità cupe (Anime Nere, Il Traditore) la cui patina plumbea crea strane suggestioni tra i flashback infantili e gli improvvisi tocchi di colore, non sottolineando il contrasto cromatico ma suggerendo soluzioni sempre diverse, proprio come in una continua scoperta del Mondo.

A quest’aria fuori dal tempo contribuisce una storia dalla datazione incerta, coerentemente a una psiche infantile che vive il tempo in una misura eterna.Il decennio è quello degli anni Ottanta, e già ci troviamo in pieno kitsch culturale. La TV agisce da cinema sminuito, minore, come un intercalare distratto tra un impegno e l’altro e trasmette solo cartoni animati giapponesi (con effetti negativi) e i primi pecorecci esiti di De Sica Jr. E già tira aria di vintage, negli elementari riferimenti culturali di Carlo (Riccardo Scamarcio): se è patetico avere un cane di nome Tenco nell’epoca in cui la hit cantata in gruppo è Se mi lasci non vale, Ultimo tango a Parigi sembra ricordarselo solo come epifania della gnocca, alla pari di un film con la Fenech. L’ambientazione a Sabaudia funge da sineddoche per un Italia ferma nel tempo, non-luogo che racchiude in sé tutti i luoghi della Nazione (e forse è un ricordo del Ferreri di Storia di Piera). La vacanza come occasione di crescita e come coacervo di esperienze inedite rispetto alla routine dà un’aria di libertà all’interno della neo-famiglia, ed è con uno sbalzo di tono che finisce per agire il superfluo ritorno all’ordine variamente incarnato: nell’autorità di padre più volte invocata da Carlo, nella presenza della religione e dei suoi riti nei figli. Il film, nel suo trattare di petto la difficoltà della crescita, rende imprescindibile all’interno di questo gruppo la presenza di Benedetta (Alba Rohrwacher) più come una sorella maggiore che come una madre, dal momento in cui la figura paterna sembra impossibilitata ad assurgere pienamente a questo ruolo. Senza di lei, Carlo non otterrebbe l’occasione di dirigere il suo film e Sebastiano non uscirebbe mai dal clima moralistico della sua famiglia d’origine. Una famiglia a cui alla fine del film tornerà: e nei loro genitori effettivi poco sarà cambiato. Il titolo Magari (spesso declinato anche nella sua variante giovanilistica magara) assume dunque un significato amaro, e il fatto di aver smorzato qualsiasi tipo di retorica o sottolineatura patetica contribuisce alla piena riuscita di quest’opera d’esordio.

Questa recensione è dedicata amichevolmente a Diego Capuano, cinefilo di/in malafede.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.