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PARIGI, 13ARR.

PARIGI, 13ARR.

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Un film magnifico ed eccentrico dalla “forma informe”.

Jacques Audiard è un regista che a Cannes e nei massimi festival è sempre stato trattato molto bene: lo dimostrano la Palma d’oro a Dheepan nel 2015 e il Grand Prix Speciale della Giuria per Il Profeta nel 2009, senza scordare il più lontano premio alla sceneggiatura per Un héros très discret nel 1996 (1). Nell’anno dell’inverosimile Palma a Titane è rimasto invece a bocca asciutta, quasi per una nemesi del caso, con quello che è forse il suo film più eccentrico, e uno dei più belli in assoluto.

Scherzi del destino, ma anche sintomo dell’incomprensione di fronte a un lavoro che ostenta la sua libertà mentre dialoga svincolato tanto con la Nouvelle Vague (il rinvio a certo Godard degli anni Sessanta non è difficile) quanto con la contemporaneità, tanto con il cinema nelle sue radici e opposizioni quanto con la continuità dell’esperienza vitale che non ama ingabbiamenti, li abbatte e scompiglia, disconosce e fa a pezzi. Inevitabile pensare alla linfa vitale che viene dai graphic novel di Adrian Tomine alla base del film e dall’apporto allo script di Céline Sciamma (che diventa palese però soprattutto nella svolta omosessuale di Nora nel finale), ma il mélange che ne sortisce possiede una fluidità così intraprendente che resistervi vuol dire rifiutare di accettare il dialogo, l’interrogazione e la possibilità di una “forma informe” che l’opera suggerisce a partire dai personaggi e dal quartiere in cui si svolge, combinandoli con le ammiccanti accensioni della musica elettronica e della techno di Rone in colonna sonora, quantomai appropriata per il film.

Come in una sorta di Wong Kar-wai parigino (ma sullo sfondo ci sono anche Carax e Beineix), Parigi, 13Arr. libera progressivamente le energie e i corpi dei suoi giovani protagonisti dai confini che li soffocano: vittime ed eroi dell’indefinito contemporaneo, essi saltano dalle relazioni più instabili agli innamoramenti più imprevisti, dalle afasie e depressioni psicologiche alle ribellioni contro l’inautenticità: il bravo professore di letteratura Camille con una svolta a U che non sarà l’unica si improvvisa agente immobiliare mentre conduce un’esistenza a dir poco promiscua e senza vincoli; la trentaduenne Nora si iscrive all’università per ricominciare dopo una giovinezza confusa e insoddisfacente e incappa in uno scacco prima e in una riappropriazione del proprio destino insieme a una nuova amica poi; la taiwanese Émilie passa da un lavoro malpagato all’altro e da un amante al successivo facendosi poche domande, ma a suo modo con una bussola interiore, ben rappresentata da una splendida dissolvenza quando Camille la scarica. Ci si può perdere e rimanere sperduti, però ci si può pure ritrovare e guadagnare la propria vita e vitalità; e le traiettorie di questi precari dell’esistenza dentro la Chinatown che è il groviglio residenziale in cui avvengono quasi tutte le vicende sanno di commedia romantica (nelle nuove relazioni che sembrano nascere nel finale) come anche di compendio di tutte le solitudini dolorose e di tutte le possibilità spesso ingannevoli dei nostri anni. In cui le panoramiche generali e i totali scivolano in ritratti intimi e l’afflato multiculturale in universalità del desiderio.

Servito dai bei volti e dai corpi spesso nudi e impegnati in rapporti sessuali di attori poco noti (con l’eccezione di Noémie Merlant, che dopo Ritratto della giovane in fiamme e questo film ci appare la possibile erede di Marion Cotillard: noi glielo auguriamo), Parigi, 13Arr. verrà snobbato dai più. E come potrebbe essere altrimenti? Troppo (in apparenza) svagato e modaiolo per convincere gli autorialisti, troppo carico di sottintesi e slanci obliqui per essere digerito a cuor leggero. Ma è un’opera così sicura, ambiziosamente generazionale ed eccedente la norma che speriamo in un riverbero nel lungo periodo: di sicuro, almeno, è che somiglia a poco altro nella produzione recente.

(1) Mentre nell’unico passaggio in Concorso a Venezia di un suo film – I fratelli Sisters proposto al Lido nel 2018 – il regista parigino ha conquistato il Leone d’argento per la miglior regia.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.