La chiusura ideale del cerchio.
Il cinema dell’orrore di oggi ha due strade: riflettere su sé stesso e insieme sull’attualità, restituendo il riflesso della contemporaneità e diventando quindi politico; oppure percorrere la strada più canonica del jump scare, puntando semplicemente a fare orrore, ad incutere paura, a creare tensione. Nessuna delle due scelte è facile, nessuna delle due ha ovviamente garanzia di buona riuscita, nessuna delle due è quella giusta: e Scream, fino dalla sua ideazione del deus ex machina Wes Craven, non ha rinunciato alla funzione classica dello spavento declinando però questa propensione attraverso la rilettura grammaticale del genere.
In questo modo, puntando il fuoco sulla sintassi del cinema e dei codici dei suoi generi, è riuscito – consapevolmente o meno – a raccontare il vuoto degli anni Novanta, quello che fa(ceva) davvero paura: un vuoto che diventava luminoso e chiaro tramite l’unica modalità che avevano i protagonisti di raccontare la loro realtà, cioè quella di rifarsi continuamente a modelli altri, ad altre trame, con un’azione che non era certo plagio ma citazione, che guardava ai modelli del passato come unici totem possibili per riempire il loro vuoto. In questo senso, Scream VI chiude idealmente un cerchio.
Anche qui, non è dato sapere (ammesso che abbia importanza) quanto Tyler Gillett e Matt Bettinelli-Olpin abbiano lavorato coscientemente sulla materia, ma il risultato è un film che diventa museo, com’è chiaro nell’ultima, ingarbugliata, lunghissima, esplicativa sequenza. I protagonisti in un magazzino addobbato come museo del sangue, tributo a Stub/Scream che è insieme autocitazione e cortocircuito a doppio salto mortale, sancendo il senso definitivo della saga horror più famosa degli ultimi anni. Certamente la più colta, dal punto di vista del genere; quella più autocompiaciuta, anche, ma sicuramente la saga con più consapevolezza che quindi è riuscita a modellare un nuovo status, un nuovo villain.
Niente è nuovo, in Scream VI: non l’idea della citazione, non quella del tributo, neanche la new family composta da giovani senza famiglia. Non c’è un’idea che possa dirsi nuova nell’impianto drammaturgico dei due registi, l’intreccio è finzionale così come la triangolazione dei rapporti e la descrizione dei personaggi, che diversamente dagli altri capitoli non hanno nessun tipo di riferimento e non riescono mai a provocare empatia.
È lo stesso Ghostface a dire, tra un affondo di coltello e un altro, “chi se ne frega del film!”: in questo, Gillett e Bettinelli-Olpin sono coerenti fino all’ultimo, a costo di un girato di quasi due ore che gira vorticosamente su una trama farlocca (a fare bene i conti, non muore davvero quasi nessuno, in questo capitolo: né qualcuno può dire che lo svelamento finale sia credibile o regga ad una qualsiasi prova logica), con qualche sequenza visivamente ben riuscita – il primo omicidio nel vicolo, l’inseguimento sul treno, l’assalto a Gayle.
Il risultato è quindi un film che ha due aspetti, due strade, due possibili risultati di visione: essere la consacrazione definitiva dell’horror che riflette su se stesso, questa volta però attaccato alla realtà solo con difficilissimi ed eventuali esercizi critici; oppure dissolversi in un bluff, una risata, una boutade, un divertissement. Insomma, un gioco di specchi e fumo che funziona (solo) come pietra tombale di una saga. Bastasse così poco per fare un film.
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