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Una vita difficile (e tutta matta).

Da alcuni anni a questa parte Paolo Virzì sembra alternare sforzi produttivi importanti a film apparentemente minori e più intimi. Certo, si fa fatica a pensare a Virzì come a un regista di piccole opere, lui che è stato da tempo fregiato del titolo di ultimo erede della commedia all’italiana. Eppure La pazza gioia, nonostante fosse in lizza per un posto in concorso a Cannes che ha poi trovato alla Quinzaine, un piccolo film lo è. Perché a differenza di altre opere del regista, qui non interessano le velleità sociali o morali con protagonista la borghesia brianzola come in Il capitale umano, e La pazza gioia non vuole essere nemmeno un compendio sulla malattia mentale (compendio che Tutta la vita davanti era, in qualche modo, per il mondo del precariato). La storia di queste due matte, Beatrice e Donatella (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti), l’una nobile decaduta e truffatrice, l’altra maniaco-depressiva a cui hanno tolto il figlio, emerge da un tessuto concreto, di provincia, quasi banale, e interessa per quel che è – un buddy movie al femminile, per di più on the road e citazionista quanto basta.
Lontano dallo sberleffo dei (a volte risibili) costumi italici, dalle magagne fatte di qualunquismo e impegno sociale, di mescolanza di alto e basso a cui Virzì ci ha abituato, a volte prendendosi anche troppo sul serio, qui si sta addosso ai personaggi, ai loro corpi, al loro portamento: debordante e pesantemente “acchittata” la Bruni Tedeschi; ruvida, coriacea, ma internamente ferita la Ramazzotti. Le loro estensioni, la casa che le accoglie e i personaggi e le facce tutte perfette e credibili, sono luoghi e persone vere, senza buoni e cattivi, che fanno il loro mestiere e il loro dovere accudendo tutti i giorni delle matte, con buona pace del politically correct. L’alto e basso di cui si parlava prima, quello degli Heidegger e dei Platone di Tutta la vita davanti o le agiografie medievali di cui era appassionato Guido nella sua vita di borgata in Tutti i santi giorni – il film più simile a La pazza gioia in quanto a bontà dell’opera e intimismo – lasciano spazio a un’opposizione di luoghi e di ambienti sociali, senza per questo diventare pedanti. I luoghi di Virzì accolgono tutti: tra la Maremma e la Versilia c’è posto per discoteche, villoni di avvocati dei piani alti, centri commerciali e grandi ristoranti; tutti sfondi eccellenti per i primi piani, su tutti quello di Beatrice a cui manca l’amica nel finale di sofferenza e speranza, quando cerca di migliorarsi e migliorare la sua situazione.
Le due protagoniste fanno il resto. Certo, resistono tracce di macchiettismo come nel passato berlusconiano di Beatrice (già in Il capitale umano la Bruni Tedeschi si trovava alle prese con improbabili artisti sinistroidi e stereotipi leghisti), ma fa lo stesso. Micaela Ramazzotti invece, ancora una volta toscana come in La prima cosa bella, fa quello che le riesce meglio, un po’ la trucida e un po’ la ragazza scappata di casa, ed è un’anima sull’orlo del baratro a cui in ogni caso non manca l’umanità. Queste due solitudini si scontrano, si affiancano, sbandano e si ritrovano, con il bisogno l’una dell’altra, sincero e amorevole.
Ecco, tutto questo regala il piccolo film di Virzì, una fiaba sgangherata nata tra i reparti di psichiatria e le comunità di provincia e che si conclude per l’appunto come una fiaba, forse anche un po’ melensa quando Donatella riesce finalmente a parlare con suo figlio, ma che comunque si risolve in un viaggio emozionante. Tra i topoi di Virzì (immancabile un riferimento alla sua Livorno quando una paziente della comunità indossa la maglia di Lucarelli, storico capitano della squadra di calcio) se ne contano altri, segno che la commedia all’italiana non rifiorirà di certo, ma indica ancora la via. Versilia significa Una vita difficile – indimenticabile Sordi che sputa sulle macchine dei ricchi – ma anche Il sorpasso: e come potrebbe essere altrimenti, specie se al centro di tutto c’è un viaggio che è per certi versi un itinerario esistenziale, che rende liberi.
La pazza gioia non avrà forse le insegne del grande film, ma risulta appassionante perché Beatrice e Donatella lottano, non si danno mai per vinte, scappano, vengono prese, ritornano all’ordine di loro spontanea volontà, insomma vivono anche quando qualcuno pensa che essere matte non lo permetta. Non si battono contro “sistemi”, ma duellano con quella vita di tutti i giorni che Virzì si accontenta di ritrarre saggiamente evitando, al contrario di quel che fece in La prima cosa bella, di voler raccontare a tutti i costi la storia con la S maiuscola. Questa è solo una storia, quella di due piccole Thelma e Louise che invece di una Cadillac utilizzano una decappottabile italiana degli anni 50 (come i loro abiti) per scapparsene verso la libertà dal set di un film, magari grande e costoso, non lo sappiamo. Sappiamo invece che La pazza gioia, da piccolo, intimo film qual è non mira in alto, ma ci racconta solo una bella storia con i tratti del buon cinema artigianale. E non è poco.

voto_4

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.