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ROUBAIX, UNE LUMIÈRE

ROUBAIX, UNE LUMIÈRE

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Una luce, un inferno e la ricerca della verità.

Sinfonia etica di una città. Attraverso le sue luci notturne e le anime sconfortate e perdute che la abitano e la vivono. Roubaix, popoloso comune industriale ai confini con il Belgio, è la località da cui Desplechin proviene ed è quello che si dice un crogiolo di etnie e nazionalità differenti. Ed è anche una città in cui la miseria materiale e morale la fa da padrona, come apprendiamo dalle scene iniziali e dal diario del giovane tenente Louis, sfuggito alla vocazione sacerdotale ma destinato a lavorare con le anime, proprio come il commissario Daoud (Roschdy Zem, monumentale), d’origine algerina, esperto conoscitore del suo “gregge”: sa indovinare se i sospettati stanno mentendo, interpreta i loro sentimenti, ne scruta l’abisso come saprebbero fare i detective di Georges Simenon o – vi ci fa pensare la seconda parte – il giudice istruttore di Delitto e Castigo, l’abile persecutore del reo (confesso) Raskol’nikov, in cerca di redenzione alla stessa stregua di Claude e Marie, le due criminali che rappresentano simmetricamente le controparti dei due poliziotti e che avrebbero premeditato (o forse no) lo strangolamento di un’anziana vicina a scopo di rapina (o forse no, non soltanto).

Un lavoro nel quale queste figure bressoniane possono sembrare agli antipodi del più recente cinema di Desplechin: eppure è un film in cui il polar assume poco alla volta una dimensione metafisica e sfuggente, decostruendosi e modificandosi in altro, più dalle parti di Pialat che di Melville ma comunque originale e inafferrabile. Lontano dal verismo di furti, aggressioni, estorsioni, risse, incendi, il genere viene avvolto dalla luce fioca di uno psicologismo empatico che lo stravolge e lo trasforma. La pietas va di pari passo con la tenacia, la comprensione dell’umanità con la rudezza degli interrogatori, l’abiezione con il sollievo, la meschinità con la speranza, il risentimento con l’amore. Desplechin compone il suo ordito con l’abituale attenzione a spiazzare le attese e a fare interrogare lo spettatore su quanto sta vedendo. Claude (Lea Seydoux è sempre più intensa) e Marie (magnifica Sara Forestier che lavora “in aggiunta” progressiva) sembrano animate da opposte intenzioni: la prima vuole cavarsi d’impaccio nel timore di perdere per sempre suo figlio, la seconda cerca di non coinvolgere la donna di cui è innamorata. Insieme scivolano nelle maglie della confessione, in breve si ritrovano invischiate nella rete delle deduzioni logiche e del confronto separato. Non resta loro che fare i conti con loro stesse e con il loro orrore. E negli sguardi che si scambiano dopo, alla fine di una ricostruzione crudele, piena di reticenze, confusione e infelicità, il sentimento e le lacrime prevalgono, malgrado tutto.

È un film in cui tutto si tiene, Roubaix, une lumière. In cui ci sono anche tante piste che si intersecano e si spengono pur apparendo tutte significative. In cui un uomo accusa ignoti di averlo assalito per rubargli l’auto, ma forse è solo una finta per truffare l’assicurazione. In cui una minorenne fugge di casa, ma accetta di incontrare di nuovo i genitori. In cui gli spacciatori si accusano di delitti che forse non hanno commesso, abituati come sono a delinquere. In cui persino il commissario Daoud, con la sua indecifrabile imperturbabilità, ha il dolore di un nipote in carcere che non vuole saperne di lui. In cui infine si può veder scommettere sulle corse dei cavalli, con spirito lieve e come se niente fosse di ciò che abbiamo appena visto. E in cui gli archi e le atmosfere fanno presagire di essere nel cuore di una sorta di messa, di rappresentazione rituale che intende riflettere e sublimare un inferno: vicino e distante, fuori e soprattutto dentro di noi. La verità è qui, ma resta problematico poterla cogliere e comprendere, annegata nell’umano troppo umano dell’anima in pena: Desplechin firma un affresco fatto di fughe, di voci e di dolore che rimane impenetrabile alla visione, ma che libera la mente dalle sue strettoie e fa respirare lo spirito.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.